LA REPUBBLICA (E. SISTI) - Manca ancora tanto ma nell’aria c’è già un vago odore di resa. Dopo sessantotto giornate la Roma scende dal suo piedistallo dorato, o prima o seconda, per la prima volta con Garcia conosce il dubbio onore del gradino più basso (un mezzo precipizio) del podio. Si è concessa il tempo di disperdere patrimoni di sostanza, personalità e qualità, ha consentito alla Lazio, dodici punti sotto, di risucchiarla scorrendole accanto, al doppio della velocità, col finestrino aperto.
Manca tanto ancora ma la sensazione è questa. Il prezioso lascito dei sei punti conquistati contro Cesena e Napoli non è stato sufficiente a stimolare un gruppo ormai incapace di garantire continuità e di scrollarsi di dosso questo suo maledetto “spleen”. La Lazio ha messo il dito nelle piaghe giallorosse. Un attacco segna a raffica, l’altro scompare subdolamente (l’ultimo gol di un attaccante giallorosso risale a 50 giorni fa, Totti contro il Verona), un entusiasmo sale, un entusiasmo svanisce. La resa temporanea si manifesta come ennesimo effetto di uno scollamento al quale né le parole di Florenzi («se giochiamo così arriviamo secondi e poi basta con queste mezze palle fuori o dentro che vanno sempre a nostro danno») né quella di Garcia («siamo dei professionisti, il sorpasso della Lazio non ci condizionerà») possono porre rimedio. La Roma attuale, mentre il tabellone dice Mauri, Klose e Candreva, reagisce al sorpasso senza reagire, come se lontano non stesse accadendo nulla di rilevante. Con Totti sacrificato in panchina, nel primo tempo la Roma esibisce un giro palla dai ritmi sahariani. I tre attaccanti (Ljajic, Iturbe, Ibarbo) sembrano tre estranei, buongiorno e buonasera. Il solo argentino, sporadicamente, tenta qualche accelerazione (ma il più delle volte spalle alla porta). Pjanic è paludato, i reparti bloccati, con la sola eccezione di Florenzi. Il Torino accetta la sfida adeguandosi all’avversario: ci proveremo ma a noi il pari sta bene.
C’è odore di resa, alla Roma, nella muffa stantia dell’affetto, nelle crepe del presunto amore della curva: i tifosi giallorossi al seguito cominciano a insultare il loro presidente Pallotta prima ancora che la partita inizi (e proseguiranno). La Roma è terza perché dopo aver trovato il vantaggio per un contestato fallo di Moretti su De Rossi (rigore trasformato da Florenzi al 13’ st) non ha saputo gestirlo, non ha cambiato marcia, non ha creduto in quei tre punti caduti dal cielo. Alla prima occasione, per un pallone giudicato fuori da Cholevas, la squadra si ferma, aspetta un fischio che non c’è, la difesa perde concentrazione e consente a Peres, Vives e Maxi Lopez di fare il proprio comodo a un passo da De Sanctis (19’ st). Anche quando gioca meglio la Roma non sa essere concreta. Negli ultimi dieci minuti impegna Padelli, tira sei volte. Così ti ricordi che nel mondo del pallone 6 attaccanti che non vedono la porta non ne fanno 1 che vede la porta anche quando dorme. E la Roma non ce l’ha. Pesano le leggerezze o gli errori del mercato, pesa Totti che si teme stia entrando pure lui nel dopo-Totti (forse era meglio servirsene ieri…). Garcia riporta Florenzi alto a sinistra (sull’1-1). È la prova decisiva: in giorni in cui il sacrificio è spesso una chimera, l’unico calciatore di Trigoria che durante una partita vedi piegato sulle ginocchia perché è l’unico che corre fino a spomparsi, segna, fa assist, prende pali, deve stare davanti. Mancano otto giornate. Praticamente la Roma non ha più niente in mano: giusto i fili di un misero e scomodo preliminare di Champions. Chissà se adesso scatterà un clic. Chissà se questo clic accenderà la luce o condannerà al buio.