GASPORT (P. CONDO') - E’ inutile che facciate finta, il presidente dell’Arsenal non lo conoscete. È un Sir, si chiama John Chippendale Lindley Keswick, ma nel giro dei banchieri educati a Eton - gli altri neanche li consideriamo - è noto col frivolo nomignolo di «Chips». Rappresentante del principale azionista Stan Kroenke, l’aplomb col quale Keswick segue le partite dei gunners è notoriamente sobrio, come si addice a un ex presidente della banca Hambros. D’altra parte la quarta figlia del sedicesimo Conte di Dalhousie, Lady Sarah, non avrebbe certo potuto sposare uno scalmanato.
VIPERETTA Anche Massimo Ferrero porta in giro un nomignolo frivolo, «er viperetta», ma il suo è un altro stile. La moglie Laura, erede di un impero di caseifici, ne è rimasta ugualmente conquistata. Crescere a Testaccio anziché a Eton probabilmente aiuta, ma il modo in cui Ferrero si è inserito nel calcio italiano denota anche uno strepitoso talento personale: mica facile sbaraccare (spesso) dalle prime pagine figure mitiche come Galliani, Preziosi o Zamparini. Viperetta è finito pure sul sito di FourFourTwo, con una foto che dice tutto: in tribuna all’Olimpico di Roma, una sciarpa doriana annodata sulla fronte, dirige il coro del tifo sotto lo sguardo ammirato della moglie e di altre amiche. «Vi piacerebbe un tipo del genere al comando del vostro club?» si chiede dubbioso il prestigioso mensile inglese. Se Sir John Keswick l’ha sfogliato, delle due l’una: o l’hanno immediatamente ospedalizzato, oppure ha ordinato nella peggiore friggitoria dell’Emirates una razione di Fish, per sdrammatizzare ulteriormente il suo soprannome.
SCEICCHI I presidenti italiani sono diversi. Per carità, fenomeni da commedia dell’arte e figure picaresche se ne son viste anche all’estero, da Bernard Tapie a Jesus Gil, e se lasciamo il terreno tutto sommato stabile dei cinque principali tornei europei troviamo come proprietari o finanziatori autentici tagliagole come Arkan (Obilic) o Pablo Escobar (Nacional Medellin), tutti finiti in gloria. Ma se risaliamo nella vip room cui hanno accesso i patron di Premier, Liga, Bundesliga, Serie A e Ligue 1, la differenza fra gli italiani e gli altri è evidente. Certo, conosciamo Florentino Perez e Karl-Heinz Rummenigge, facciamo ancora un po’ di confusione tra sceicchi - che replicano sempre i soliti quattro cognomi, variamente miscelati - e fischiettiamo noncuranti quando Roman Abramovich è nel nostro stesso ristorante (successe a Kharkiv durante l’ultimo Europeo, dietro i tendaggi s’intuivano i bazooka delle guardie del corpo): ma per quanto potenti, a nessuno di loro verrebbe in mente di gridare più volte «hip, hip, hurrà!» davanti a una platea di giocatori costernati, come ha fatto Silvio Berlusconi in una delle visite seriali a Milanello di questa improduttiva collezione autunno/inverno.
BUSINESS Non è casuale, del resto, che il proprietario del Milan sia stato per molti anni presidente del Consiglio e ancora oggi, malgrado i noti problemi, sia ancora un politico di rilievo. La visibilità in Italia è un bene preziosissimo, il vero additivo che spinge industriali e avventurieri a tentare il colpo nel calcio, consapevoli che nulla moltiplichi la popolarità (e a certe condizioni anche il consenso) come il pallone. Gli altri tornei europei sono da tempo dominati dal business in forma diretta: proprietà spesso lontane demandano al management locale il compito di fare soldi, se possibile vincendo per non farsi contestare dai tifosi/ clienti. In Italia il business è indiretto perché più o meno tutti - se riescono a non rovinarsi col calcio, che è un giochino pericoloso - lo utilizzano per altri scopi. Mondo particolare, la serie A. Persino chi arriva dall’estero senza ambizioni diverse dal raccogliere un dividendo, come l’americano James Pallotta, si sente in dovere di tuffarsi in piscina vestito a gennaio davanti ai nuovi dipendenti. Un buon modo per farsi accettare alla Roma. «Questo è strano come noi - devono aver pensato - ci troveremo bene».
LAMENTI L’aspetto più preoccupante è che il culto della personalità dei dirigenti oscura ormai quello dei bomber, che pure dovrebbero essere i protagonisti del prodotto (si dice così). I gol sono un trascurabile inciso nel fumettone popolare delle doglianze arbitrali, il termometro che misura lo stato di forma dei presidenti. Il giro delle squadre è circolare e ovviamente a senso unico, nessuno ammette un errore a favore, accà nisciuno è fesso: dopo Milan-Udinese si è lamentato Pozzo, dopo Genoa-Fiorentina si è lamentato Preziosi, dopo Lazio-Genoa si è lamentato Lotito e così via, tutti con la stessa frase issata sul pennone, «la mia squadra merita rispetto». Nell’immaginario collettivo innesca una serie di vendette trasversali («hai avuto un rigore fasullo contro di noi perché la settimana scorsa hai frignato senza vergogna») che - spingendo il discorso alle estreme conseguenze - dimostrerebbe che gli arbitri sono degli psicolabili o, all’opposto, dei sicari professionisti. L’ultima lamentela, poi, è la più grottesca visto che Lotito - e lo diciamo come dato di fatto - ha ampiamente dimostrato di essere il presidente più potente della serie A: riesci a imporre in federazione Tavecchio, sfidi il senso del ridicolo indossando la felpa della Nazionale e ti fai tormentare dagli arbitri dispettosi? Suvvia: Gervasoni non aveva alcun passamontagna, ha semplicemente applicato la regola iniqua del rigore più espulsione che, in quanto iniqua, viene vissuta da tutti come un sopruso.
PROSPETTIVA In realtà l’ultimo turno di campionato è stato il perfetto cavallo di Troia per spostare nuovo potere - stavolta quello delle regie televisive - verso Infront, il Darth Vader del nostro calcio (ma di cavalieri Jedi se ne vedono pochini). Ventiquattro anni dopo Marsiglia, Adriano Galliani - che continua a mangiarsi a colazione gli altri manager del nostro calcio, inermi di fronte alla sua esperta astuzia - ha accettato di recitare un’altra figuraccia (la storia della prospettiva faceva ridere... da qualsiasi prospettiva) per portare a casa il bottino. Poi se ne va in tribuna a patire sinceramente per la squadrina che ha messo assieme con i fondi tagliati da «hip, hip, hurrà!», tira fuori le facce irresistibili che ne hanno fatto un’icona, e mette tutti nel sacco un’altra volta. Florentino Perez, uomo che pure vale svariati miliardi di euro, non ne sarebbe mai capace. Abramovich esprime il massimo della sua partecipazione spedendo ai suoi allenatori sconfitti un sms con un punto di domanda. Nessuno è al corrente della massima reattività di Sir John: un sigaro spento a metà?
IN STRADA Il grande show dei presidenti italiani contagia tutti. Quando De Laurentiis, schifato dal calendario, ferma il tizio in motorino per farsi portare via dalla Lega, certifica la sua iscrizione al club meglio di qualsiasi fideiussione: se non son strani, non li vogliamo. Succeduto a un Pellegrini che sceglieva gli allenatori in base alle perizie grafologiche della moglie, Moratti paga l’eccesso di educazione con estenuanti conferenze in mezzo alla strada, e a nulla servono le telefonate imploranti dei suoi addetti stampa («ti scongiuro, oggi non parla, non andare sotto alla Saras»), basta che un ragazzino di Radio Quartiere gli spiattelli sotto il naso un registratore perché lui si lanci in interminabili ragionamenti che il titolone lo partoriscono sempre.
BALLETTI Ce n’è anche per i nostri azionisti, non malignate, anche se oggettivamente sono fra i meno pop. Andrea Agnelli presidia sì la tribuna, ma osserva con partecipazione la furia di Nedved quando vola fin dietro le panchine dello Stadium per gridare nelle orecchie all’arbitro se il recupero è inadeguato a sbloccare un pareggio. Cairo s’è beccato pure un hashtag (#Cairobraccino) per non aver reinvestito tutti i soldi incassati da Cerci e Immobile, ma con quel popo’ di classifica ora si gode la rivincita. E i goffi balletti di Andrea Della Valle a ogni gol male si sposano con l’eleganza della griffe di famiglia. Piccole cose, normalità quasi europee, difatti per loro FourFourTwo non si è mai scomodato: molto più folkloristiche le corna e bicorna di Ferrero che nella scaramanzia è l’erede di Cellino, emigrato in Inghilterra in cerca di sobrietà. Cellino. Inghilterra. Sobrietà. Trovate l’errore.