GASPORT (A. MONTI) - L'anagramma di Lotito è «titolo». Infatti quando parla in pubblico o al cellulare, un titolo ai giornali lo dà sempre. Per questo - ma solo per questo - pure noi che lo sopportiamo a fatica proviamo nei suoi confronti una profonda gratitudine. E' quindi con animo dolente e cuore affranto che proprio nel giorno di San Valentino tocca affrontare l'argomento del distacco: dopo quanto abbiamo letto e sentito, Claudio Lotito non può restare sulla poltrona di consigliere della Figc un minuto di più.
La Lega di A, che è un'associazione tra privati, si tenga il suo campione finché vuole e il buon Maurizio «conto zero quindi non drammatizzo» Beretta continui a officiare come sua vestale. Ma la Federcalcio è un'istituzione posta a garanzia dello spettacolo sportivo più amato dagli italiani. Un patrimonio pubblico. Non è pensabile che al suo vertice sieda un uomo capace di mettere insieme in una sola conversazione telefonica, per quanto registrata clandestinamente, la quantità industriale di scempiaggini (alcune in odore di illecito e meritevoli di deferimento) che stanno terremotando il calcio italiano in queste ore. Lasciamo perdere le volgarità, le pressioni grossolane, i giudizi imbarazzanti e andiamo al cuore della questione: dalla sua viva voce apprendiamo che non vuole saperne di squadre tipo Carpi, Frosinone e Latina in Serie A. Quindi un influente consigliere federale, sventolando il suo prepotere come una clava, pretende di piegare ai suoi voleri i risultati del campo, di far salire e scendere chi conviene a lui e ai suoi sodali d'interesse.
Di fronte a tutto questo parlare di LotitoGate non è per nulla fuori luogo. Infatti le istituzioni, questa volta, lo hanno brutalmente scaricato. Nell'ordine: un coraggioso Tavecchio, che pure gli deve la presidenza della Figc, il presidente del Coni Malagò, il presidente di Lega B Abodi e soprattutto il sottosegretario Delrio hanno giudicato inaccettabili sia le parole sia il metodo. Tutti, dal popolo del web ai poveri tifosi di Carpi e Frosinone, gli chiedono di sgombrare in fretta. Uno con un ego normale - per dire, Giulio Cesare o Napoleone - si ritirerebbe in convento per il resto della vita. Ma Claudio Magno non ci pensa per niente. Anzi, insiste nel dire che le sue parole fanno parte di un più ampio programma, un piano di rinascita del calcio nazionale che prevede meno squadre e più soldi per tutti. Anche Licio Gelli, in fondo, andava architettando le stesse cose. E' il metodo che lo ha fregato e per fortuna è finita com'è finita. Lotito invece conta di restare al potere. Anche perché gli unici che potrebbero cacciarlo, i presidenti della serie A, oggi si sono distinti per un fragoroso quanto sbalorditivo silenzio.
L'assemblea di Lega non ha discusso l'argomento. Solo il duo di opposizione Agnelli-Baldissoni ha espresso un netto disagio. Privatamente, gli altri presidenti chiedono di "non fare di tutta l'erba un fascio". Dimenticando che un ex «fascio» nel senso etimologico del termine (Lotito non ha mai nascosto le sue giovanili simpatie di destra) in federazione ce lo hanno spedito loro. Ora che è diventato l'emblema dello sfascio toccherebbe a loro revocarlo. Ma forse è troppo pretendere dai padroni del pallone un dignitoso senso delle istituzioni. Lotito e questo calcio non sono in fondo lo specchio fedele di un Paese dove in Parlamento le dispute si regolano a cazzotti? S'avanza, nello sport come nella società, l'idea che debba prevalere non la forza delle idee o del gioco bensì la prepotenza di chi mena e di chi briga. Per noi illusi che cerchiamo su un campo di pallone la certezza del risultato, il sospetto che una massoneria pallonara possa condizionarlo è semplicemente ripugnante. Questa è l'essenza del LotitoGate. Ma le probabilità che il nostro uomo finisca come Nixon non sono molte. Al contrario del Watergate, non è la stampa da sola che può sbattergli in faccia un cartellino rosso.