GASPORT (R. BECCANTINI) - Non metto in dubbio l’importanza dei quattrini, e il fatto che sceicchi, emiri e magnati russi abbiano imposto accelerate pazzesche, ma comincio a essere stufo dell’abuso di slogan, di grafici, di metafore (Antonio Conte: «Con dieci euro non si mangia in un ristorante da cento»). Il calcio è sempre stato dei ricchi, anche se in passato le distanze non erano così profonde. E’ giusto tenere vivo l’argomento e corretto censurare i ritardi, la pigrizia, le dicotomie del sistema Italia. Con manzoniano «juicio», però. A meno di non trasformare l’allarme nella soluzione di «altri» problemi. Se il risultato dipende dalla differenza dei fatturati, perché mai un Murdoch o un editore di giornali dovrebbero sprecare risorse in inviati? Si studiano i bilanci, si tirano le somme e si titola già, il giorno prima, la partita del giorno dopo.
Lo stesso discorso vale per il rapporto tra il gioco e i giocatori. Un club non può permettersi Leo Messi o Cristiano Ronaldo? E chi se ne frega: paga a peso d’oro un allenatore capace di garantirgli un prodotto di alto livello, con i giovani del vivaio finalmente al centro del villaggio e al vertice del progetto (ops). Risparmierebbe comunque un sacco di soldi. Viceversa, per la libidine dei procuratori, il mercato non chiude mai, moltiplicando tentazioni, illusioni, tensioni: l’allenatore titilla la piazza che spinge il presidente che frena l’allenatore che, piccato, manda segnali di fumo alla piazza che, frustrata, insulta il presidente (cori di discriminazione aziendale). Sarebbe meglio accorciarne la durata.
Tornando al denaro, la religione del fatturato - che, sia chiaro, raccoglie molti credenti per il verbo oggettivo che diffonde - non può e non deve impedirci di provare. In base a detto catechismo, il Napoli avrebbe dovuto sbranare il Chievo. Invece, ha vinto il Chievo: al San Paolo, per giunta. E la Roma stava per suonarle ai milionari del Manchester City. Obiezione: nella partita secca può succedere di tutto, come in un’udienza, ma quello che conta, in un caso e nell’altro, è l’ordine d’arrivo. La sentenza. Capisco lo sforzo che dobbiamo compiere per avvicinare i prezzi delle locande domestiche agli standard europei, secondo l’immagine cara al nostro ct. Nello stesso tempo, mi piace pensare che il calcio possa essere anche - e ancora - sorpresa, sogno: non solo calcolo, non solo borsa. Si tende troppo ad allontanare il fascino dell’idea dal fastidio del reale, nel senso che, a leggere certe analisi, verrebbe voglia di mollare la sfida, tanto è tutto scritto nel cash flow (?). Avremmo i giornali e le televisioni più competenti del mondo, con un tasso di pronostici errati ai minimi storici.
In attesa che il fair play finanziario fissi il nuovo panorama, serve coraggio. Non nego la dittatura dei diritti tv, e neppure la classifica degli stipendi, diligente nel ratificare la supremazia di Juventus e Roma, ma non mi arrendo. E lo scrivo dopo aver letto che persino la mitica arena del Real Madrid sposerà uno sponsor di Abu Dhabi per la modica «dote» di 500 milioni di euro. Emiri o non emiri, continuerò a scrivere «al Santiago Bernabeu»: e il naufragar mi sarà sempre dolce in questo stadio.