LA REPUBBLICA (M. PINCI) - Il Salento salutato poche ore prima, nemmeno il tempo di vedere la finale dei Mondiali, vissuta in viaggio: le valigie ancora in soggiorno, il dovere che chiama e la testa che non ci sta. È lunedì mattina, Antonio Conte inizia il suo quarto raduno da juventino con un peso sul cuore: non stanchezza, «un vincente sopporta benissimo la fatica », ma «percezioni» che, lo sente, gli impediranno di continuare a guidare la squadra. L’appuntamento è per la mattina: camicia a quadretti, maniche arrotolate, un jeans, la vacanza attaccata all’abbronzatura e i pensieri distanti. Il solito saluto ai custodi, ma con un sorriso meno caldo. L’allenamento lo segue a distanza, come non lo coinvolgesse più. Un “bentrovato” semplice alla squadra mutilata dei nazionali, niente a che vedere con i discorsi motivazionali degli altri anni. Mentre tutti lasciano il ritiro per il pranzo, la chiamata ai dirigenti: «Dobbiamo parlare». C’è l’amico Agnelli, il direttore Marotta con cui le ruggini non sono mancate. Il malessere diventa voce, in una stanza di Vinovo: è la prima volta che usa la parola «addio», con la voce tremante per il peso dell’annuncio.
Già a maggio la separazione era stata vicinissima, quando Conte era a un passo dal diventare il tecnico del Milan. Galliani era certo di averlo convinto, saltò proprio per questo, ma il rammendo non ha sanato la frattura: le premesse per la nuova stagione già non sono quelle sperate quando all’orecchio dell’allenatore, domenica sera, arriva la notizia che la Roma ha raggiunto per 22 milioni l’accordo con il Verona, prendendo Iturbe. Un nome indicato dall’allenatore, che a Torino, peccando di ottimismo e superbia, consideravano già loro in virtù di una carta firmata da giorni. È la goccia che fa tracimare l’umore di Conte. I pensieri impazzano, la conclusione è una sola: la Juve è un capitolo chiuso, quella Juve che non lo sopporta più come quando tollerava eccessi dialettici in ragione dei risultati. Tre anni sono lunghi, le incomprensioni inevitabili, i toni si accendono, la tensione nervosa si fa sentire. Lunedì a pranzo Conte ha deciso che la strada è una: separarsi. Fa venire nell’hotel della squadra, il Principi di Piemonte, il suo legale, l’avv. De Rensis. E’ deciso: si lavora al modus della separazione. Da discutere le tante clausole: la Juve impone che Conte non si impegni con altri club italiani fino a giugno, e vuole il silenzio sulla vicenda. Il tempo non passa mai, nell’hotel: le riunioni vengono interrotte solo da telefonate familiari. Decide la stanchezza: alle 3 di notte, tutti stremati, all’unanimità ci si pronuncia sull’aggiornamento. Ma la notte non ha portato consiglio: martedì l’allenatore è ancora più distante, solo la visiera del cappellino cela l’umore cupo. La squadra deve sapere, così Conte convoca in ufficio i suoi collaboratori. Sullo sfondo della lavagnetta tattica dice ai suoi che l’avventura è finita: qualcuno si commuove, piange, il vice Alessio lo abbraccia. Poi tocca alla squadra, il momento più difficile. Non è nemmeno l’ora di pranzo. Conte ne chiama nello spogliatoio 7/8: Pepe, Llorente, Giovinco, Storari, Padoin. Tutti in piedi, qualcuno si appoggia ai tavoli al centro della stanza: lo ascoltano a testa bassa, applaudono, ringraziano. Tevez è immobile, distrutto: «È stato un onore conoscerla, mister», dice tradendo la commozione.
Un pranzo senza appetito, e un pomeriggio ancora lungo, con le questioni da definire: c’è un anno di contratto pendente a 3 milioni netti, le cose non si fanno in due minuti. Alle 16 Marotta ha già chiamato Allegri, ma Conte non ha ancora definito l’exit strategy. Sono le 18.30 quando appone la firma sulla risoluzione, due ore prima del video: il tempo che serve a ragionare sulle parole giuste per salutare, senza nemmeno ricordarsi di togliere la maglia della Juventus, troppo forte l’abitudine. E dopo non resta che l’ultima manovra, al volante dell’auto, lo slalom sulla ghiaia del parcheggio che, da ieri, non ha più il cartello con il suo nome. Poi è solo famiglia. La Juve non è più casa