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Il capro espiatorio della giovane Italietta

25/06/2014 alle 11:15.
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IL FATTO QUOTIDIANO (O. BEHA) - E adesso, povera Italia? Non solo l’Italia di Prandelli, ma quella di Napolitano e quella di Renzi così identificate nella Nazionale dopo la battaglia vinta di Manaus, quella dei tifosi e quella degli esperti e degli inviati mediatici nel “Mondiale dei Mondiali”? Quella per cui tutto era o magnifico o tragico con pochi, troppo pochi accenti comici? È vero, è stato almeno in parte compiuto un furto arbitrale, giacché va pesata, dopo un rigore non dato all’Uruguay che fa il paio con quello non dato alla Costa Rica sempre a favore nostro, un’espulsione forse esagerata di Marchisio e invece una mancata cacciata di Suarez, colto (dalle telecamere) a mordere Chiellini.

MERITAVA anche lui il rosso diretto per aver emulato Hannibal Lecter e se stesso, chiaro esempio di fuoriclasse fuori di testa. Rimane il fatto che con ci siamo negati nulla: in un Mondiale di tanti gol e di spettacolo offensivo, abbiamo preparato scientemente la nostra disfatta giocando per il pari e dimostrando che l’avere due risultati su tre ha svolto un ruolo pessimo sulla psiche, sui muscoli e sulla testa di Prandelli e di chi ha sciaguratamente mandato in campo, dall’inizio e a partita in corsa. Fa paura pensare che dopo uno spettacolo obbrobrioso, da reti bianche che potevano effettivamente restare tali fino alla fine senza l’espulsione e un gol sufficientemente casuale, di spalla, l’Italia di Prandelli, monca e confusa, lontanissima parente di quella “normale” vista contro l’Inghilterra e invece fotocopia preoccupata di quella perdente con la Costa Rica, nell’ultimo spezzone abbia trovato un briciolo di identità. Ma sì, se il tempo di una partita è per gli Azzurri quello che un certo lasso di tempo è per una nazione e per un popolo, ecco in filigrana l’accaduto: solo la disperazione di essere ormai fuori da tutto, per giunta per la seconda volta consecutiva come non avveniva dagli anni ’60 quando a colpi di cazzotti, di oriundi, di arbitri e di squadra di casa, uscimmo subito in Cile, o quando in Inghilterra ci pensò la Corea del Nord di un dentista che poi non era tale…, solo la disperazione ci ha spinto sotto a cercare un pareggio improbabile ma non impossibile, perché l’Uruguay era in preda alla sua personale lotta alla stitichezza. Chissà che l’Italia Paese debba ancora arrivare agli ultimi dieci minuti e per questo la reazioni latiti… E comunque l’unica forma di identità dell’Italia di Prandelli, dopo l’illusione ragionata della prima partita, si è vista nella reazione subrisorgimentale del finale. Peccato che non ce la facessero più di gambe e di testa dopo una partita corsa sempre sul filo del tatticismo, della paura, del tendenziale vittimismo (oddio, ora che ci faranno?), del non-gioco: era questa la formula magica per riuscire indenni? Quella di schierare comunque il sopravvalutatissimo Balotelli, sempre a disagio e lontanissimo dalla statura di campione che gli è stata riconosciuta prima che la barattasse con quella di star della mondanità?

QUELLA DI sostituirlo con Parolo cogitando astutamente che l’Uruguay avrebbe attaccato e sarebbe stato meglio avere davanti solo Immobile, perché tanto “bastava il pareggio”? Quella di sostituire, una volta in dieci, l’unico contropiedista, appunto Immobile (è un cognome…), con un fantasista stizzoso invece che con Cerci, che avrebbe dilatato il fronte avversario? Insomma, Prandelli è stato l’autentico “faber” della sua e nostra sfortuna, ma è “solo” il responsabile di una sonora disfatta sul campo, alla fine strameritata e straspiegabile. Non è invece colpevole di tutta quell’altra Italia che gli è andata appresso, non delle telecronache di Caressa da neurodeliri, non dell’imbonimen - to di tutto il sistema dei mercanti mediatici, non del patriottismo da toilette che è tornato fuori stavolta ancora più prepotentemente del solito per un Paese “ggiovane” nella squadra di governo che avrebbe voluto specchiarsi in una Nazionale “ggiovane” in grado di ben figurare come ambasciatrice sul pianeta. Niente di tutto questo, contraddizioni in serie, e una spesa generale, materiale e immateriale, di gran lunga superiore all’impresa: che non c’è stata. E adesso via con le lamentele sull’arbitro troppo severo e troppo incapace, via con l’ine - vitabile “arresto” non in flagranza di Suarez, via per tre giorni con la disamina del deserto socioeconomico della nostra Rotondolandia. Prima di ricominciare nello stesso modo al quarto giorno, con gli stessi dirigenti, lo stesso gossip di quart’ordine, la stessa idea di professionalità sotto le scarpe perché in fondo, specie quando conviene in un Paese che sembra non avere nient’altro (forse il cibo, sì…), “si tratta pur sempre di un gioco”. Dal balcone di Piazza Venezia tempo fa qualcuno non la pensava esattamente così. E non parlo di Hans Fallada, con l’interro - gativo parafrasato del quale ho iniziato questo articolo.

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