CORSERA (M. SCONCERTI) - Sugli arbitri si continua a fare la discussione sbagliata. Il problema non è la loro eventuale malafede, che sarebbe corruzione. È capitata anche questa lungo la strada del calcio, non si può impedire alla gente di avere sospetti. Ma è una scelta sbagliata. Gli errori sono troppi per parlare di complotti . Se tutto fosse corruzione, i corruttori sarebbero automaticamente tutti. La corruzione, quando avviene, è tra pochi e alla lunga sempre identificabili. Difficilissimo complottare in diretta televisiva. Capisco che l’idea di un Grande Vecchio sia sempre seducente, una specie di Divina Provvidenza all’incontrario che alla fine giustifica tutto, ma non funziona così. L’arbitro è un ambizioso solitario che ama pochissimo gli altri arbitri. Non sono più di una ventina quelli che dirigono in A. Sono ognuno l’avversario di se stesso. Fanno un mestiere rancoroso perché difficile e altamente desiderabile. Non hanno amici, mai. Hanno però tante lusinghe. Sono persone normali con un potere eccezionale, ma lo possono esercitare solo su atomi del calcio. Contano solo durante la partita. Quindi diventano esplosivi.
La regola dice che il miglior arbitro è quello che non si nota. Ma se non devo essere visto, perché faccio l’arbitro? Perché faccio un mestiere che è il più raro del paese? Questo è il problema di fondo. Gli arbitri amano le lodi più dei soldi, ma vengono offesi, criminalizzati. Il loro mestiere si avvicina a un dramma esistenziale. Sono individualisti, ma si difendono, finiscono per detestare chi in campo causa la loro impopolarità, la profanazione della missione. E quando si ritrovano non fanno organizzazione, non ci riescono perché sono avversari, ma commentano, si scambiano nomi e opinioni sui cattivi. E qui nasce l’arroganza, la scintilla che accende la possibilità di sbagliare oltre la normalità. Il grande calcio, dovunque sul campo, è una prateria di piccole vendette personali, amicizie e ostilità lunghe una vita e di memoria lunga. Siamo però ancora alla cornice, a un’interpretazione eletta del problema.
Quello che oggi si nota è soprattutto la confusione che c’è sul campo, la nuova fragilità dell’arbitro. È circondato di telecamere, ha un auricolare in cui parlano almeno altri cinque arbitri, ha chi lo controlla in diretta tv e gli fa sapere i risultati delle sue decision, quindi sai subito se hai sbagliato partita. Ha ventidue giocatori che cercano d’ingannarlo e un pubblico che chiede solo il proprio interesse. In più ha una vita personale. Più importanti sono le partite che dirige e più importante è la sua storia. Se scontenta tutti non lo vuole nessuno.
Chi accontentare allora? In questo caso essere completamente liberi significa spesso testimoniare contro se stessi. Si può fare di mestiere? Non credo. Quello che viene fuori è una sensazione di approssimazione e congestione. Non è vero che gli errori sono diminuiti. È vero che restano tanti e gravi. Eppure l’arbitro in pochi anni ha avuto tutto. È diventato un professionista, ha avuto l’assistente di campo, ha avuto la tecnologia, può parlare in diretta con gli altri addetti sull’andamento dell’azione, gli sono stati raddoppiati i collaboratori, ormai abbiamo sei arbitri a partita. Si può ancora non vedere e sbagliare così frequentemente? Non è il tempo di parlare anche della qualità dei nostri arbitri, di pretendere più uniformità, che diventino realmente un gruppo e non si smentiscano a vicenda, che sbaglino meno e lo facciano per tutti? Abbiamo moltiplicato gli arbitri e abbiamo solo ottenuto di moltiplicarne le versioni . Questo è peggio di una congiura. È modestia.