GASPORT (R. PALOMBO) - Ottavo re di Roma, o anche «Divino». Lo chiamavano così. Ma in entrambi i casi Paulo Roberto Falcao lo è stato per un tempo brevissimo. Qualcosa di molto lontano, tanto per intenderci, dalla sopraggiunta immortalità pluriventennale di Totti, che di Roma oggi non è più soltanto il re, ma anche l’imperatore e il Papa (Francesco). Falcao ha consumato tutto in quei suoi quattro fantastici anni, o meglio ancora negli ultimi due, quello dello scudetto 198283 e quello immediatamente successivo, della finale di Coppa dei Campioni, allora si chiamava così, all’Olimpico contro il leggendario Liverpool di Dalglish, Souness e Rush. Persa ai rigori, col gran rifiuto del «Divino» di tirarne uno, mentre Conti e Graziani stremati sbagliavano dal dischetto. Fu la notte in cui Falcao, complici certi cattivi consigli del suo avvocato che di nome faceva Cristoforo Colombo, perse in un colpo solo lo spogliatoio, l’amicizia di Dino Viola, la città. Un ginocchio malridotto e ulteriori beghe legali accelerarono l’epilogo l’anno successivo, il quinto. Quattro partite. La Roma con lui non ne perse nemmeno una ma poi finì settima e in un campionato a sedici squadre. Prima di Natale era già tutto finito. Poi, la rescissione con Viola che vinse una causa epocale risparmiando un sacco di quattrini.
Il meno brasiliano dei brasiliani Eppure, chi c’era e se lo ricorda bene, scevro da sentimentalismi di bandiera, Falcao può descriverlo solo così: un fenomeno. Il meno brasiliano dei brasiliani. Un giocatore totale, universale come si diceva a quei tempi con ancora negli occhi e nella mente l’effetto Olanda di Johan Cruijff di dieci anni prima. Centrocampista, difensore e attaccante Falcao era l’uomo del salvataggio sulla linea di porta e dell’ultimo passaggio per i gol di Roberto Pruzzo. 25 ottobre 1981, RomaFiorentina 20, il suo assist con un acrobatico colpo di tacco per il colpo di testa del «bomber» può essere ancora oggi cliccato su Youtube. Chi se lo è perso, corra a rimediare. Falcao maratoneta dalla corsa leggera e dai piedi buonissimi, lo trovavi ovunque, a far reparto in ogni angolo del campo, con quel numero 5 che era un marchio di fabbrica. Un giocatore di una modernità assoluta, all’ombra del quale compagni appena «normali» hanno vissuto stagioni da protagonisti. Per credere, scorrere la rosa dei quattordici titolari (altri tempi!) della Roma campione d’Italia 1983: accanto a mostri sacri come Conti, Ancelotti, Vierchowod e Pruzzo, potrete trovarci Maldera, Iorio, Chierico, Nappi, Valigi... Tempi in cui la corsa era un optional, e l’indimenticato Ago Di Bartolomei e Prohaska venivano soprannominati «lenti a contatto ». Con Falcao a dirigere l’orchestra era un costante andare oltre. La cosa curiosa è che Falcao fu un ripiego. A Roma nell’estate dell’80 doveva arrivare il ben più celebre Zico, che poi finì a Udine tre anni dopo. Scetticismo e disincanto tutto romano accompagnarono così l’esordio di Falcao, brasiliano anomalo e ai più sconosciuto. Per capirlo, e per comprendere che colpo di fortuna era capitato alla Roma, l’Olimpico giallorosso ci impiegò qualche settimana.
Ma in panchina... Tutto ti saresti potuto aspettare da uno così, ma non che non sarebbe stato capace di sfondare come allenatore. Proprio lui, che in campo dirigeva il traffico consentendo a Liedholm pomeriggi di tutto riposo in panchina. Ci ha provato, ma non ha funzionato. Questione di chimica, più che di testa. La stessa che regalò all’ottavo re di Roma l’opportunità di restare tale in eterno. Ma che non fu sfruttata.