Gervinho: «Per la Roma il derby è stato solo l’inizio»

02/10/2013 alle 09:36.

CORSPORT (M. EVANGELISTI) - Lui è l’uomo che ha rimesso il razzismo là dove deve stare: in mano agli imbecilli che lo manifestano. Gervinho ha abbastanza cuore da avvelenarsi quando sente insultare un giocatore di colore e abbastanza fegato da non ascoltare. Possiamo mettere tutti i divieti che vogliamo e punire con tutta la

 

Gervinho, riesce ancora a uscire di casa o è già diventato una preda per i tifosi?

«Oh, io non esco mai molto».

E’ un peccato perdersi Roma.

«Lo so bene. E’ una à famosa nel mondo. Ma sono qui da poco, è appena arrivata la mia famiglia, ho avuto parecchio da fare. Avrò occasione di recuperare il tempo perduto».

Che qui si sia entusiasti di lei, comunque, l’avrà capito.

«Ho avuto quest’impressione, sì. Ma non riguarda soltanto me. C’è passione intorno alla squadra, c’è unità all’interno dello spogliatoio, c’è spirito in campo. Tutte cose che mi rendono felice».

Da Yao Kouassi a Gervinho. Com’è accaduto?

«Cominciamo dal dove. All’accademia calcistica di Abidjan. Ci sono arrivato che ero un ragazzino. Senza scarpe. Per arrivare a farti dare le scarpe da gioco devi superare tre test, uno all’anno. Superato il terzo puoi avere le scarpe e la maglia con il nome sulla schiena. C’era un allenatore brasiliano che invece di mi chiamava Gervinho. Ecco fatto: scritto sulla schiena».

In Europa si guardano gli spot e i filmati e si vedono i giovanissimi calciatori africani giocare in mezzo alla strada, sulla polvere e sui dossi. E’ davvero così che si comincia, da voi?

«Le cose stanno migliorando. Arrivano gli sponsor. Però che cominciare sia difficile è vero. Corriamo scalzi su campi di fortuna. Ci si fa male spesso, si mettono i piedi sui cocci delle bottiglie».

Insomma, è complicato.

«Tutto è complicato, in Africa. Devo ancora conoscere un calciatore per il quale la vita sia filata liscia. Tutto sommato, io me la sono passata bene. Giocavo ad Anyama, il mio paese, in una piccola squadra. I miei genitori avevano dato a mia zia il permesso di crescermi. Si usa, lì. Sono andato ad Abidjan per passare le vacanze con mio padre e mi hanno offerto di entrare all’accademia. Mio padre non voleva. Io avevo 11 anni e andare alla scuola calcio suonava strano. Il mio allenatore di Anyama si è assunto tutta la responsabilità. Ho superato tre esami, mi hanno preso».

E adesso è diventato il modello della comunità ivoriana di Roma.

«Fa piacere, no?».

Lei non arriva dal posto più tranquillo del pianeta.

«Guerra civile, tante vittime. In quel caso sono stato fortunato. I miei non sono stati mai sfiorati dalle turbolenze. Oggi è tutto molto più tranquillo e non posso che esserne contento. Intanto faccio del mio meglio in Nazionale. A qualche cosa serve anche questo».

Fa del suo meglio insieme con quelli che le hanno dato il voto come uomo più rapido e più brutto della squadra.

«Eh eh. Gioco in una selezione di autentici umoristi, non è vero? La Costa d’Avorio in effetti è un bell’ambiente, le prese per i fondelli reciproche non mancano, il cameratismo neppure. Si ride parecchio in squadra. E ognuno ha il suo sistema per dare spettacolo. Di brutti non saprei dire, ma di molto rapidi in Nazionale ce ne sono tanti».

Da bambino era già così veloce?

«E’ una qualità naturale. Ciascun giocatore ha la propria caratteristica. La mia è di pesare 65 chili e di saperli scagliare in avanti. All’accademia me ne sono reso conto e mi sono messo a correre molto sulla sabbia per affinare questa dote».

Dopo la partita con il , e i due gol realizzati, lei ha detto che adesso si allena nelle conclusioni a rete. A Londra non accadeva?

«Accadeva, sì. Ma non in questo modo, non con questa intensità. Soprattutto dopo gli allenamenti regolari. Mi fermo in campo e provo a tirare in porta, cerco di riprodurre parecchie situazioni che possono verificarsi in partita. Così vuole lo staff tecnico, così facevo anche a Lilla. Lavoro di più. E miglioro di più».

A proposito di Londra: Wenger ha ribadito che la sua cessione alla Roma è stata la soluzione migliore. Sia per lei sia per l’.

«Se sia un guadagno per l’, non saprei. Io so esattamente che cosa cercavo a Roma e che cosa effettivamente ho trovato: la possibilità di giocare di più, un allenatore che abbia fiducia in me, un club di alto livello e di grandi ambizioni».

Nel quale si è inserito senza problemi.

«Questo non è del tutto vero. Sia io sia il coach sapevamo che avremmo dovuto adattarci a una realtà nuova. Ostacoli ne ho incontrati. Quelli che mi aspettavo, l’arrivo in un ambiente sconosciuto, l’impatto con un calcio diverso dal mio e molto competitivo».

Ma sta parlando del campionato italiano?

«Certo che sì. Lo guardavo in televisione. Non ero poi così a digiuno del modo in cui si gioca qui. Certo, un’idea precisa non l’avevo. Credo però di aver capito molto e abbastanza in fretta».

Magari con uno come è più semplice. Sembrate creati apposta per giocare insieme.

«Non avrei mai immaginato di poter lavorare con lui. E’ un piacere e anche un bel peso. Accanto a Francesco devi stare sempre attento. Può consegnarti una palla decisiva in qualsiasi momento. Non sarà mica un caso se due dei miei tre gol sono nati da suoi assist».

Par di capire che alla Roma si stia bene.

«E’ un posto divertente. Compagni allegri, scherzi, simpatia. Non parlo ancora italiano, ma chiedo spesso ai più giovani di aiutarmi con il significato di qualche parolina. Poi ci sono alcuni che parlano un po’ d’inglese, qualcun altro francese. Non ci si annoia».

E non ci si sente soli.

«Ho la mia famiglia con me. Mia moglie, tre figlie. E i loro nomi tatuati sulle braccia in grande e le date di nascita in caratteri piccoli».

Adesso può ammetterlo: ha detto sì alla Roma perché c’è .

«In realtà hanno fatto tutto i miei procuratori. Naturalmente quando si decide di trasferirsi in una certa squadra la prima cosa da fare è parlare con l’allenatore. In questo caso parlare con l’allenatore è stata la cosa più facile del mondo. Ci conosciamo bene».

Lei è tante cose insieme: ballerino, cantante, disegnatore di moda.

«Essenzialmente sono un giocatore di calcio. Ancora più essenzialmente sono africano e gli africani amano la musica. Ho una vita semplice ma intendo godermela fino in fondo. Cantare, ballare: le occasioni non mancano, soprattuto quando la squadra va bene e partono i cori nello spogliatoio. E, sì, mi diverto anche a disegnare qualche vestito. Magari sarà il mio mestiere quando avrò smesso di giocare».

Ah, dunque è lei il colpevole di quel ciondolo che porta al collo: G27.

«No, i responsabili sono i miei sponsor. G come Gervinho e il 27 della maglia, che poi è la mia data di nascita».

Ora che ha assaggiato il calcio italiano e la consistenza della Roma ed è partito in quarta, quanti gol pensa di segnare?

«Non mi sono mai fissato obiettivi del genere. Pare che io sappia realizzare reti e anche mettere altri davanti alla porta. Non so neppure quante partite giocherò, come faccio a contare in anticipo i gol? Posso dire questo: non mi piace poi tanto segnare se la squadra non va bene, non mi preoccupo troppo di restare a secco se la squadra va bene».

Per la Roma che cosa significherebbe andare bene?

«Tornare a qualificarsi per le coppe europee, che altro?».

Lo scudetto è fuori discussione?

«No, e perché? La squadra è valida, l’ambiente è compatto e determinato. C’è fiducia, Possiamo porci obiettivi molto seri. Fino ad arrivare al massimo».

Più importante avere vinto il derby o battere l’Inter sabato prossimo?

«Dal momento in cui ho messo piede a Roma ho sentito parlare solo del derby. Come faccio a sostenere che quel successo non abbia un significato speciale? Io però so distinguere il passato dal presente. Il presente è l’Inter ed è al presente che bisogna pensare».

I riti che precedono le sue partite.

«Due: dormire bene e ascoltare attentamente l’allenatore».

Neanche un po’ di musica?

«Quella sì. La mattina presto, appena alzato».