CORSPORT (S. AGRESTI) - La Roma americana ha un sapore molto casereccio. Da società di borgata, diremmo, per risultati e comportamenti, scelte e immagine. Mannò, peggio di una società di borgata: se in periferia o in un paesotto dell'hinterland cercate il padrone del club, lo trovate in ufficio o al bar della piazza; qui, il
C'è il direttore sportivo che fuma decine di sigarette in diretta tv per dire che forse il tecnico sarà licenziato, ma poi se lo tiene; c'è il portiere che va a Londra per essere ceduto, ma poi viene richiamato indietro (e si può comprenderne lo stato d'animo); c'è il tecnico che non viene avvertito del licenziamento di persona, ma via sms; c'è il sostituto che ci descrivono come un'ottima persona e un professionista degnissimo, ma non ha mai guidato una squadra in prima persona; c'è perfino chi non si preoccupa della vergogna di cui è co-protagonista, ma pensa a dispensare sgradevolissimi giudizi su chi gli sta attorno, solo perché non ne condivide le idee.
Ci scusino i presidenti di borgata se li abbiamo avvicinati a tutto ciò, anche solo per un istante. E, in questo bailamme, la proprietà dov'è? La Roma era stata ritenuta un ' asset» (così parlano, gonfiando il petto) fondamentale per gli azionisti americani: si abbandona forse un «asset» del genere nel momento della crisi massima? Chi tiene alla società giallorossa? E quanto? Come può essere credibile una proprietà che non si vede, non si sente e - soprattutto - imita tutti i peggiori comportamenti dei nostri vecchi presidenti, dopo avere sbandierato e annunciato innovazione, modernità, salti nel futuro e avere dipinto il calcio italiano come retrogrado e superato? Abbiamo visto altre grandi società in crisi. In quei momenti, la voce del padrone diventa non importante, bensì decisiva, sia questo Agnelli o Moratti, Berlusconi oppure - e i tifosi giallorossi lo sanno benissimo - i mitici Dino Viola e Franco Sensi. Ma qui, alla Roma, non si vede nemmeno il padrone: impossibile sentirne la voce.