Falcao: «Juve, il mio derby»

11/12/2011 alle 09:56.

IL MESSAGGERO (U. TRANI) - «È il mio derby. La Lazio, quando c’ero io, nemmeno la consideravamo. Esisteva solo la Juve, per tutta la stagione l’anno». Paulo Roberto Falcao, 58 anni, parla da Porto Alegre e rilancia, 30 anni dopo, la sua sfida. «Per cinque anni è stato il derby nazionale. Di solito il derby riguarda una

 
La rivalità è sempre la stessa, ma oggi la Juve è distante. Prima in classifica, imbattuta. Ha mai vissuto una situazione del genere quando era alla Roma?
«Sì, il secondo anno. Ci chiesero, con i titoli dei giornali più letti, di salvare il campionato. Era iniziato da due mesi, la era in fuga. Vincemmo a Torino, il primo novembre. Segnai per la prima volta alla . Cross di Bruno, Brio e Zoff pasticciano e io da solo a firmare il successo. Facile e bello».
 
È quella la vittoria più bella contro la ?
«No. Fu solo importante e di prestigio. Ma sei mesi prima, sempre a Torino, la soddisfazione fu più grande. Ancora uno a zero, gol di Carletto, nella semifinale d’andata di Coppa Italia. Poi pareggiammo al ritorno all’Olimpico, rete di agostino. Andammo in finale e contro il Toro conquistammo il trofeo. Quel successo sulla , però, consacrò la Roma di Liedholm».
 
Perchè?
«Avevamo vinto anche il dieci maggio dell’ottantuno. Gol di Ramon, bellissimo e regolarissimo. Lo scudetto era nostro, ma con quella rete annullata lo consegnarono alla . Noi, però, eravamo più forti. E lo dimostrammo il ventotto maggio in Coppa Italia, dopo due settimane di polemiche feroci: arrivammo lì e chiudemmo la bocca ai rivali. In Italia, dopo quel successo, tutti riconobbero che il titolo lo meritavamo noi. Era appena iniziata la nostra favola: loro erano i campioni, noi gli mettevamo paura. Sempre».
 
Che cosa ve lo faceva pensare?
«Vi ricordate il fallo che mi fece Furino all’inizio della partita? Cattivissimo. Ma lì capii che ci temevano e anche tanto. E infatti avevamo vinto pure quel giorno, colpo di testa di Ramon».
 
I nomi della dell’epoca erano di primissimo piano. Non subivate il loro fascino?
«Io ho sempre rispettato Platini. Ma anche lui rispettava me. Ci sentivamo avversari, non di più. Poi Zoff era il primo d’Europa, Gentile il marcatore più bravo, Cabrini il migliore fluidificante e Scirea fantastico. Il top era Marco, calciatore unico: correva, combatteva e segnava. Ma noi giocavamo. E anche nella Roma c’era qualcuno bravo...».
 
La sconfitta, invece, indimenticabile per la sua Roma?
«All’Olimpico, l’anno del nostro scudetto. Avevo segnato ancora io. Con Liedholm decidemmo che dovevo fare il centravanti per mandarli in confusione. Potevamo andare in fuga e invece si avvicinarono. Rimontarono: pareggiò Platinì e nel finale arrivò il gol di Brio, tra l’altro in fuorigioco. Ricordo l’ambiente, quel giorno. In à era calato il pessimismo totale. Pure tra noi. Mi venne un’idea, però».
 
Quale?
«Andai in tv, ventiquattr’ore dopo. In prima serata, a Mixer, trasmissione seguitissima. Ricordo ancora la mia frase: “La può aggiudicarsi lo scudetto solo se decidiamo di perderlo noi. Che, però, vogliamo prendercelo”. La domenica seguente vincemmo a Pisa, su un campo difficilissimo: reti di Agostino e mia».
 
Servirebbe un discorso del genere anche per domani sera: la Roma è moralmente a pezzi. Come si può rialzare?
«Questa partita vale un campionato: vincendola, i giallorossi si rilanciano. E volano. Ne sono certo. E’ chiaro che, perdendola, il contraccolpo sarebbe fortissimo. Sarebbe dura riprendersi in poco tempo. È triste guardare la classifica e vedere la Roma così lontana dal vertice. Ma sono passati tanti anni, è cambiata pure la società. Tutto è nuovo o quasi. Anche noi partimmo da zero o quasi».
 
Come valuta la di oggi?
«Completa, concreta e solida. Non ha i campioni di trent’anni fa, ma un grande collettivo. Ha i giocatori giusti per il calcio di . Adesso sono gli allenatori a fare la differenza. Chi organizza bene una squadra alla fine vince. Prima, quando un tecnico non ci riusciva, erano i fuoriclasse a risolvere la partita. Adesso non è più così. è proprio bravo».
 
E Luis Enrique?
«Va aspettato. Deve abituarsi al calcio italiano. Ma non conta niente se non aveva mai allenato un club professionistico. Non è determinante la gavetta, quella fatta da , anche se può servire».
 
Secondo lei si può portare a Trigoria il sistema di gioco del ?
«Ora sarebbe un errore madornale solo pensarlo. Il valoro della società catalana parte da lontano: Michels, Cruyff e Rijakard, prima di Guardiola, hanno dato un’impronta. hanno giocatori adatti a quel gioco, tutti di primissimo piano».
 
Allora pensa che Luis Enrique non abbia gli elementi ideali per giocare quel calcio?
«Non lo so, non sto lì. L’allenatore spagnolo deve prima preoccuparsi di come gestire il gruppo. Tutto dipende da lui. Non credo che sia arrivato troppo presto in Italia. nè lo vedo inesperto. Perché a volte conta di più il carattere. E lui ha personalità. E giovani, come Lamela, di qualità. Se Luis vince il mio derby non avrà più problemi. Cambierà tutto per lui. E per la Roma. Che sarà subito grande».