
LA REPUBBLICA (F. BOCCA) - La nuova Roma americana - una volta assodato che Di Benedetto non è Abramovich - è nata su un patto: si rompe col passato, si punta sui giovani e sul gioco, si è disposti ad affrontare le difficoltà della rifondazione, non ci si rimangia tutto ai primi rovesci.
È lo stesso scoglio in cui si erano imbattuti Spalletti e Ranieri, come fatto notare perfidamente dallo spagnolo. Perché alla fine il problema è proprio questo: mettere Totti in panchina o sostituirlo a un quarto d'ora dalla fine è considerato un affronto. E un errore a prescindere. Non solo, quella sostituzione viene considerata la causa stessa dell'eliminazione, come se esistesse la certezza che con Totti in campo la Roma non avrebbe preso quel gol e anzi ne avrebbe fatto sicuramente un altro. Un ragionamento puramente fideistico.
Che tra le intenzioni della Roma ci sia anche quella di andare oltre Totti mi sembra dichiarato e comprensibile - parliamo di un campione di 35 anni - anche se è stato fatto in maniera goffa e soprattutto scorretta nei confronti di chi rappresenta la Roma più di tutti: mandandogli messaggi e senza mai affrontarlo sinceramente faccia a faccia, come sarebbe stato doveroso e più produttivo. Hanno sbagliato i dirigenti e ha sbagliato Luis Enrique, molto preso boriosamente nella parte di quello che non deve spiegazioni a nessuno. Anche se il tecnico, secondo me, ha già pagato tre volte il conto dei propri errori, tanto da suscitare solidarietà: giovedì sera, dopo il fattaccio e dopo esser stato coperto di fischi, alla prima domanda si è sentito chiedere se non era il caso di andarsene, e dalla domanda 2 alla 100 cosa mai gli fosse passato per la testa sostituendo Totti. Alla fine si poteva esser certi di una sola cosa: con un'intolleranza del genere la Roma, romana o americana che sia, è destinata a sbagliare come in passato. Come se nulla fosse cambiato.