Sabatini: Io, Sollier e Hemingway

01/06/2011 alle 13:26.

IL ROMANISTA (M. IZZI) - Questo articolo-intervista a firma di Walter Sabatini, del 17 giugno 2002, è stato pubblicato nel libro: Meteore 3. Storia vere di calcio italiano, di Andrea Loi. L’abbiamo rimontata, tagliata … e letto con interesse perché Sabatini, all’epoca collaboratore dell’Arezzo, si racconta con una lucidità spietata che evidenza lo spessore del personaggio,

All’intervistatore che nel 2002 gli chiedeva delle foto del periodo da calciatore rispondeva: «Non ne ho, il mio passato l’ho distrutto». Anche la Roma è pronta a dimenticare il suo recente passato, insieme dovranno scrivere il futuro della Roma.  

«Sono del ’55, la mia infanzia è il calcio di strada, di piazzetta, a giocare dalla prima luce del giorno al buio pesto. A casa, di sera tardi, palleggiavo in corridoio. Papà era operaio, anche a mio fratello Carlo piaceva il pallone, ha lavorato nel settore giovanile del Padova crescendo talenti importanti, come Del Piero e Sartor, oggi allena gli Allievi Nazionali del Venezia. Avevo un rapporto erotico col pallone, gli altri giochi mi sembravano inutili e oziosi. A dodici anni giocavo nel Nestor Marciano, un gruppo terribile, nel senso che facevamo paura, siamo arrivati un paio di volte alla finale nazionale, le giovanili di dilettanti e professionisti erano mischiate. Si stravinceva. Dopo un anno di Primavera a Perugia a diciott’anni esordii in serie B. Fu un approccio traumatico. Ero arrivato facilmente in prima squadra, senza soffrire troppo, al debutto l’allenatore (Balleri N.d.A.) mi chiese di marcare il regista dell’Atalanta Pirola. Marcare? Giocavo trequartista e l’idea di mettermi a controllare qualcuno non mi aveva manco sfiorato, i primi dieci minuti ero talmente attanagliato dal terrore che non vedevo Pirola, i compagni, il pubblico. Nel proseguo del campionato Balleri venne sostituito da Remondini e mi rimisi in sella. Nel 74/75 di Castagner in serie B, stavo in squadra con Paolo Sollier, nemico in quanto giocava al mio posto, amico nella vita. Oggi sarebbe accettato con naturalezza, ieri era un fenomeno da baraccone perché coltivava interessi fuori dal calcio, si occupava di politica. Nel pieno di un periodo caldo, con scontri di piazza, militava in Avanguardia Operaia e lo consideravano un reietto. Io non lo evitavo, era un ragazzo colto e sensibile, ci frequentavamo, ma in campo lo odiavo, era un cursore senza qualità, a parte il dinamismo. Da allenatore oltre il San Colombo non è andato, gli hanno sbarrato la strada, io stesso non l’ho mai chiamato, pensavo che alla prima partita persa gli avrebbero imputato cose diverse dal calcio. Mi sono adattato anch’io, ho avuto paura. Nessuno di noi gli ha offerto la possibilità di allenare ad alti livelli. Paolo è un uomo. Renato Curi, era un mio grande amico, il mio fratello più piccolo anche se era di due anni più giovane di me. La sua morte (durante Perugia- del 30 ottobre 1977. N.d.R.) fu una botta feroce. Ho quarantasette anni e non è mai passato un giorno della mia esistenza senza che gli abbia dedicato un pensiero. (…)

Nell’ottobre del ’75 andai in prestito al Varese in serie B. Si concluse al quarto posto. Era una grandissima squadra, con Muraro, Chinellato, Dal Fiume. E io mi portavo dietro la mia testa, all’inizio giocai male e fui messo giustamente da parte. La considerai un’irriverenza e cominciai a fare una vita individuale, fuori dal gruppo, che era eccezionale. Rfiutavo le convocazioni, mi comportavo male, simulavo infortuni per passarmi i week end sul Lago Maggiore in buona compagnia. Poi Marso e Sogliano, allora giovane e brillante direttore sportivo, complice, in senso buono, dei calciatori, mi recuperarono. Nell’ultimo mese di campionato ebbi più successo io di quelli che erano andati sempre in campo, mi venivano colpi addirittura al di sopra delle mie possibilità, tanto che nel mercato di luglio ero uno dei più richiesti. E certo, ero bello fresco, riposato, me la vedevo con gente in flessione fisica, al termine della stagione.

Nel ’76 passai in comproprietà alla Roma (per 500 milioni, una cifra enorme, se si pensa che i due miliardi spesi dal per Savoldi in quel periodo fecero storia N.d.A.). A Roma mi riservarono una bella accoglienza, un’ovazione. Quando venne il momento del calcio vero, mi persi subito. Non affrontavo i problemi, mi sentivo boicottato dagli altri. Invece era eutanasia. Pensavo che giocare nella Roma fosse un diritto e non una conquista quotidiana con De Sisti, Prati e compagnia ci si mette in coda e si prova a diventare bravi come loro, giusto? Invece credevo che il posto fosse mio per diritto divino, se Liedholm non mi convocava la prendevo come una bocciatura, mi chiudevo e mi proponevo in maniera provocatoria, ritardi, disapprovazione palese delle scelte dell’allenatore. Cose tipiche di un giocatore poco intelligente, avevo di me stesso un’immagine falsata. Il declino è cominciato proprio a Roma. Liedholm pensava a me come un campione potenzialmente internazionale. Macché, feci una toppa. Oggi gli chiedo scusa, vorrei abbracciarlo e portare indietro le lancette dell’orologio. Fu un dolce declino perché non precipitavo da una grande altezza, nonostante ai tempi pensassi il contrario per pura superbia. Nessuna caduta. Cadono le persone che hanno fatto qualcosa, io non ebbi neanche la dignità di cadere. Scivolai (…). 

Non ero precisamente un soldatino, se c’era da marciare qualche passo fuori dal tempo io lo facevo. Indisciplinato, sì. Ero un narciso innamorato delle mie qualità, della mia velocità, delle mie doti tecniche. Facevo il solista, pensavo che ogni partita fosse l’occasione per un successo personale e non il concerto di un’orchestra. Scartavo l’uomo in un lampo, facevo il doppio passo, la locomotiva, che è il doppio passo con un piede solo, avevo lo spunto esplosivo. Di testa non la prendevo, lo consideravo un gesto poco gratificante e questo è un particolare che ti illumina su un grande giocatore, e lo ero veramente, che non sapeva capire il calcio. Il Perugia mi riscattò, mi sarebbe servito un compagno di squadra pronto ad aiutarmi …. Ma no, inutile, non mi facevo aiutare, mi sentivo aristocratico perché leggevo Hemingway e Dostoevskij.



Era l’occasione di riprovarci con la serie A e naturalmente l’ho fallita. Sono stato accantonato, non ero utile alla

squadra, non mi calavo nella normalità del lavoro. Uguale all’Università: a 22 anni ho dato tre esami fondamentali a Scienze Politiche e credevo di avere la laurea in tasca. Stesso comportamento, da calciatore e da studente.



Per equità. Dopo un infortunio mi ha tenuto fermo quasi due stagioni e quando ho ripreso era tardi per le grandi platee. La breve vita di un giocatore mancato mi ha aiutato dopo. Ho voluto lavorare nel mondo del pallone, mi ci sono dedicato con un impegno totale, ottuso. Sono uno che sta dodici ore alla scrivania: è un’espiazione delle cazzate precedenti. (…)

So riconoscere il calciatore guardandolo in faccia, non abbocco al bluff perché lo conosco bene. Provarci con me è come tentare di rubare in casa del ladro».