Più forti di tutti, anche di Moggi

17/06/2011 alle 11:27.

IL ROMANISTA (S. ROMITA) - «Ma dove cavolo pensi che fossi quel giorno? Ero lì dove dovevo essere, e con la testa stavo seduto al mio posto già dalla notte prima. Diciamo pure da giorni». Antonio Padellaro, direttore de il Fatto, è uno dei pochissimi giornalisti italiani che è riuscito a vedere un futuro editoriale e a portarlo sulla carta.

Ottenendo un grande successo in edicola e mettendo a frutto un passato di indubbio livello. Già alla fine degli anni ’70 viaggiava con un altro passo. E mi ero chiesto sempre il perchè. Poi, negli anni ottanta l’ho capito. Era di sinistra con la testa, e ed era romanista

con la tessera. Entrambe le cose, ho sempre pensato, fanno la differenza.

 

Quanto hai sofferto e come hai vissuto Roma - Parma 2001?



«E’ stato un giorno incredibile. Sono andato, come sempre faccio, molto prima del tempo. Inutile che spiego a voi come vadano rispettati i rituali collettivi e personali. Parcheggio al solito posto, faccio a piedi sempre lo stesso tragitto e amo entrare e salire piano piano i gradini scoprendo lentamente il pezzo di cielo, l’erba,

le tribune e quanta gente c’è già. I posti sono i soliti: distinti sud, con mia moglie Paola e i miei figli Giacomo e Matteo. Ora i ragazzi vanno per conto loro ma dieci anni fa la formazione era quella. Ed ero tormentato dalle frasi della vigilia. A partire dalle dichiarazioni dei giocatori del Parma che annunciavano novanta minuti di fuoco, di guerra...sai... cose tipo: anche per noi è la partita della vita! E pensavo a quella sensazione di eccitazione mista a paura che possa sempre accadere qualche cosa di irreparabile. Noi romanisti la troviamo sotto la nostra pelle. Che non possiamo mai stare tranquilli. Che c’è sempre qualche fatto che salta fuori all’improvviso. Che la fortuna non è certo un’amica nostra. E pensavo anche a quel lato del mio carattere per cui mi preparo sempre al peggio mentalmente per essere in grado comunque di assorbire la botta. Che poi una botta è una botta e non l’attutisci certo affrontando le cose con un sano pessimismo. Però devo anche dire che certe volte aiuta e, a noi romanisti ci ha aiutato molto nella nostra storia di grande imprese ma per lo più di anni difficili. Parlo di una cultura e di una tolleranza verso la sconfitta, e verso il rispetto dell’oggettività dell’andamento di una gara, che ritengo sia importante. Dico importante per la formazione delle persone.

E infatti cercavo, e ho cercato negli anni, di insegnare questo laico convincimento ai miei due figli. Che però mi hanno mandato subito a quel paese con questa storia del vedere il lato sportivo delle cose... che dopo un paio di volte ho lasciato cadere lì questa filosofia. E me la tengo per me. Quel giorno comunque non osai nemmeno».



Avevamo il fiato della sul collo, la paura è paura



«Non dimentichiamo che Luciano Moggi aveva un potere immenso. Ora è stato radiato, ma allora aveva detto che la Roma non avrebbe mai vinto quello scudetto. E uno pensava: che cosa ha in testa? Che cosa può aver preparato? E c’era questa cappa incredibile sopra lo stadio per cui continuavo a chiedermi se davvero sarebbe stato permesso alla Roma di vincere il campionato. E’ stato veramente snervante. Tutta la fine del girone di ritorno lo è stata. Certo con la a Torino si era capito che era possibile. Ma tifare Roma significa combattere sempre con questo maledetto corto circuito del dramma non calcolabile e improvviso, dell’ingiustizia, della costruzione di un falso fuori gioco o di un rigore contro inesistente che ti piomba tra capo e collo. Sarà per Turone, sarà perchè ne abbiamo viste tante, ma questo dramma si intreccia continuamente

con il nostro gioco e ci consegna alla fine dei novanta minuti sul sedile della macchina come uno straccio bagnato gettato nel portabagagli»



Che anno è stato per te? L’arrivo di Gabriel Batistuta a fine carriera... che non aveva mai vinto...Montella,

Candela, Tommasi, Delvecchio...fortissimi no?



«Batistuta per me è stato il massimo. Non mi sono perso un momento della trattativa infinita, con i giornalisti fuori da villa Pacelli in attesa della firma, e Sensi che si è svenato per prenderlo. Gabriel era e resta il prototipo del centravanti guerriero e vincente. Si capiva nell’aria, con quell’arrivo, che sarebbe stato l’anno giusto. E in quel Roma- quel suo gol incredibile fatto di forza, classe, precisione, mi ha trasmesso una vibrazione addosso che ho sentito arrivarmi in modo chiaro e netto. E ancora posso provare rivedendolo. E poi certo e il suo campionato impressionante, Montella e tutti gli altri. E Capello e i suoi gironi d’andata a mille. Anche se devo dire che l’allenatore che ho amato di più, oltre al "barone" non è stato lui ma Spalletti. Il record di vittorie, il gioco brillante e divertente. Non ho mai visto, ritengo, una Roma giocare meglio».



Puo’ ancora accadere. Non trovi che ci siano oggi le premesse con questa rivoluzione romanista? Ti convince?



«Si, moltissimo. Abbiamo visto tutti quest’anno, come spesso si vede in tutti i lavori collettivi, anche nei giornali, che non c’era lo spirito giusto. Anzi. C’era lo spirito sbagliato. Era indispensabile un cambiamento radicale, e una nuova dirigenza può fare moltissimo in questi casi. I tre nuovi protagonisti sono seri e forti, e mi piacciono: Baldini, , Enrique rappresentano quello che serve. La novità e la competenza. E un’idea forte e nuova. Chiaramente dobbiamo avere pazienza. Non si potrà avere immediatamente un risultato. Ma quello che si potrà senza dubbio ottenere è un gioco mai scontato e, speriamo, innovativo. E in questo mi lascia ben sperare il fatto che gli americani che hanno comperato la Roma devono vendersi un marchio Roma forte. Può succedere solo abbinando il divertimento subito alla novità. Ecco sia per noi, che per loro dobbiamo puntare a rappresentare oggi la vera novità nel calcio italiano».