Quel mito intramontabile tra Sordi e Michael Jordan

16/04/2011 alle 11:38.

CORSPORT (A. FANI') - Abbiamo iniziato a conoscere l’America un gior­no d’estate del 1943. Pancet­ta affumicata, fagioli in sca­tola, gingomme (chewing gum storpiato in ogni modo), sigarette di qualità. Dollari. E libertà. Prima lo sbarco in Sicilia, poi la risalita su Na­poli, poi, primavera del 1944, lo sbarco ad Anzio. Roma. Più si allargava il sorriso americano, più si smorzava l’orrore nazista, evaporava­no le lacrime per le loro stra­gi. Per gli americani, noi ita­liani abbiamo persino sacri­ficato un pezzo dei nostri sforzi, un pezzo di lotta par­tigiana. C’era la Seconda Guerra Mondiale, poi venne­ro loro, gli americani, e la guerra iniziò a finire.

COSE -Abbiamo iniziato a co­noscere l’America attraver­so gli oggetti dei soldati. Que­gli oggetti divennero un pon­te con questi italiani mezzi morti di fame e dilaniati da 20 anni di fascismo e 3 di atroce guerra; un mezzo per affascinare le ragazze, così belle ma così timide, tanto diverse dalle donne america­ne che vedevano l’alba del­l’emancipazione sessuale. La prima America - non quella dei nostri avi approdati a El­lis Island per «colonizzare» New York, Chicago o Detroit - su suolo italiano è una serie di cose: le penne a sfera, le am-lire, ilbacon.E allora di­ventava nuovo e più bello sa­pere cosa fossero, quegli og­getti: diventava bello capire la loro lingua, questo parlare così strascicato, stretto, così veloce. A Roma si faceva a gara per impararla, quella lingua, dopo che l’ipocrisia fascista aveva boicottato le lingue straniere: eppoi in Ita­lia era stato il francese la lin­gua alla moda, fino al Venti. Poi no, poi le cose cambiaro­no, e allora ecco l’americano, un idioma senza freni, adat­to alla lingua lesta e snodatadi certi italiani di borgata, furbi e fanatici come lontre.

VOLTI -Un americano a Ro­ma l’ha raccontata meglio di tutti. Per i giovani degli anni Quaranta, l’America era la moto, le pistole di John Way­ne, il cappello in testa e le si­garette in tasca. Era il whi­sky, erano ibluginz,era un gioco: giocare a prendere la vita al laccio, giocare a caval­carla tra donne bellissime e dollari a palate. Ma l’Ameri­ca, per noi, è stata sempre un gioco: perché, come cantava Carosone, il whisky ci di­struggeva lo stomaco, a noi avvezzi più al vino delle no­stre dolci colline. Alberto Sordi aveva in stanza la maz­za dabaseballdi Joe Di Mag­gio, ma quel gioco ci appari­va noioso e incomprensibile come le prediche in certe chiese. Inseguiva le donne, ma restava ancorato alla fi­danzata di quartiere. Illuder­ci americani ci ha fatto sen­tire forti, ci ha fatto sentire capaci di tutto in mezzo alle rovine di un Paese che nel 1943 sembrava capace di niente. L’America ci ha dato una ragione per giocare a es­sere quello che non eravamo, coraggiosi, spavaldi, energi­ci. Fino a convincerci che an­che noi italiani, poveri e pu­sillanimi, fossimo così, co­raggiosi e risoluti. Poi sono venuti la Coca Cola, le Con­verse sotto i jeans, il basket e Michael Jordan, il football e gli hamburger. Così gli ame­ricani, settant’anni dopo quella primavera del 1944, «sbarcano» di nuovo a Roma. Noi non siamo più quelli mezzi morti di fame dopo tre anni di guerra, ma quel mito, dell’americano forte, bello e «avanti», ce l’abbiamo anco­ra. Forse perché, nonostante i nostri sforzi, noi resteremo italiani, e loro, coi loro volti da attori, i loro cervelli da scienziati e i loro modi da venditori di successo, saran­no sempre americani.