CORSPORT (A. FANI') - Abbiamo iniziato a conoscere lAmerica un giorno destate del 1943. Pancetta affumicata, fagioli in scatola, gingomme (chewing gum storpiato in ogni modo), sigarette di qualità. Dollari. E libertà. Prima lo sbarco in Sicilia, poi la risalita su Napoli, poi, primavera del 1944, lo sbarco ad Anzio. Roma. Più si allargava il sorriso americano, più si smorzava lorrore nazista, evaporavano le lacrime per le loro stragi. Per gli americani, noi italiani abbiamo persino sacrificato un pezzo dei nostri sforzi, un pezzo di lotta partigiana. Cera la Seconda Guerra Mondiale, poi vennero loro, gli americani, e la guerra iniziò a finire.
COSE -Abbiamo iniziato a conoscere lAmerica attraverso gli oggetti dei soldati. Quegli oggetti divennero un ponte con questi italiani mezzi morti di fame e dilaniati da 20 anni di fascismo e 3 di atroce guerra; un mezzo per affascinare le ragazze, così belle ma così timide, tanto diverse dalle donne americane che vedevano lalba dellemancipazione sessuale. La prima America - non quella dei nostri avi approdati a Ellis Island per «colonizzare» New York, Chicago o Detroit - su suolo italiano è una serie di cose: le penne a sfera, le am-lire, ilbacon.E allora diventava nuovo e più bello sapere cosa fossero, quegli oggetti: diventava bello capire la loro lingua, questo parlare così strascicato, stretto, così veloce. A Roma si faceva a gara per impararla, quella lingua, dopo che lipocrisia fascista aveva boicottato le lingue straniere: eppoi in Italia era stato il francese la lingua alla moda, fino al Venti. Poi no, poi le cose cambiarono, e allora ecco lamericano, un idioma senza freni, adatto alla lingua lesta e snodatadi certi italiani di borgata, furbi e fanatici come lontre.
VOLTI -Un americano a Roma lha raccontata meglio di tutti. Per i giovani degli anni Quaranta, lAmerica era la moto, le pistole di John Wayne, il cappello in testa e le sigarette in tasca. Era il whisky, erano ibluginz,era un gioco: giocare a prendere la vita al laccio, giocare a cavalcarla tra donne bellissime e dollari a palate. Ma lAmerica, per noi, è stata sempre un gioco: perché, come cantava Carosone, il whisky ci distruggeva lo stomaco, a noi avvezzi più al vino delle nostre dolci colline. Alberto Sordi aveva in stanza la mazza dabaseballdi Joe Di Maggio, ma quel gioco ci appariva noioso e incomprensibile come le prediche in certe chiese. Inseguiva le donne, ma restava ancorato alla fidanzata di quartiere. Illuderci americani ci ha fatto sentire forti, ci ha fatto sentire capaci di tutto in mezzo alle rovine di un Paese che nel 1943 sembrava capace di niente. LAmerica ci ha dato una ragione per giocare a essere quello che non eravamo, coraggiosi, spavaldi, energici. Fino a convincerci che anche noi italiani, poveri e pusillanimi, fossimo così, coraggiosi e risoluti. Poi sono venuti la Coca Cola, le Converse sotto i jeans, il basket e Michael Jordan, il football e gli hamburger. Così gli americani, settantanni dopo quella primavera del 1944, «sbarcano» di nuovo a Roma. Noi non siamo più quelli mezzi morti di fame dopo tre anni di guerra, ma quel mito, dellamericano forte, bello e «avanti», ce labbiamo ancora. Forse perché, nonostante i nostri sforzi, noi resteremo italiani, e loro, coi loro volti da attori, i loro cervelli da scienziati e i loro modi da venditori di successo, saranno sempre americani.