Alberto De Rossi: "Daniele triste, ma vuole restare"

18/03/2011 alle 10:28.

IL ROMANISTA (D. GALLI) - «C’è malinconia nelle sue dichiarazioni. Ma neanche lui vorrebbe mai affrontare un futuro lontano dalla Roma». Alberto De Rossi non parla spesso del figlio Daniele. Anzi, a dire il vero non lo fa praticamente mai. Questa è l’eccezione che conferma la regola. Forse, perché glielo suggerisce il cuore di papà. Un papà che sembra voler tenere ancora per mano il figlio come quel giorno d’inizio estate all’Ardenza.

IL ROMANISTA (D. GALLI) - 
«C’è malinconia nelle sue dichiarazioni. Ma neanche lui vorrebbe mai affrontare un futuro lontano dalla Roma». Alberto non parla spesso del figlio Daniele.  Anzi, a dire il vero non lo fa praticamente mai. Questa è l’eccezione che conferma la regola. Forse, perché glielo suggerisce il cuore di papà. Un papà che sembra voler tenere ancora per mano il figlio come quel giorno d’inizio estate all’Ardenza. Correva l’anno 1984, indossavano entrambi la maglia di un Livorno appena promosso in Serie C1. Daniele aveva un anno. I capelli biondi a caschetto gli scivolavano sulla divisa amaranto. Lo racconta la penna di Tonino Cagnucci nella biografia di "Il mare di Roma" (Limina Edizioni, 244 pagine). Alberto si apre nel corso di un’intervista concessa a Teleradiostereo. Parla della sua Roma Primavera, quella mai doma, quella che rende fieri i ragazzi della Curva a Firenze in una notte di Coppa Italia. Ma parla soprattutto del momento delicatissimo che sta vivendo Daniele: «Mio figlio - racconta - non nasconde le sue emozioni. C’è malinconia nelle sue dichiarazioni, quando fa intendere di sentire attorno un’aria diversa. Ma sono momenti. Neanche lui vorrebbe mai affrontare un futuro lontano dalla Roma. Ovvio che se c’è stato un suo sfogo, c’è anche una causa. Ma lui è uno che gioca per la squadra. È stucchevole ricordarlo, ma lui di questa squadra è tifoso. Sente la Roma dentro di sé. E neanche io vorrei che arrivasse un momento in cui Daniele dovesse discutere il suo futuro nella Roma». È stucchevole ricordarlo. Però è vero. Tutto si può imputare a baby, tranne che non dia tutto per i compagni. Per la Roma. Per i romanisti.

È un codice d’onore che Daniele si porta dietro ovunque giochi. Perché gioca, lui sicuramente, per la maglia. Il padre racconta anche cosa è successo dopo le dimissioni di Ranieri«Al momento di nominare l’allenatore, la società si è comportata benissimo. Poi, secondo me, non c’erano i presupposti perché io potessi allenare la squadra. Non c’è stato un mio no all’incarico e quindi la Roma in alternativa si è orientata su Montella. Con Vincenzo non c’è mai stata guerra per accaparrarsi la panchina. Ho ritenuto che non fosse il caso che diventassi io tecnico della prima squadra. Allenatore un giorno mio figlio Daniele? Forse in qualche torneo estivo. Nei fatti, per scelta, ritengo che non sia il caso. E ritengo che ciò non avverrà». Dalla Roma dei grandi, alla sua Roma. senor torna a vestire i panni del tecnico della Primavera:«L’errore del Seculin della , nella finale di Coppa Italia, è stato abbastanza evidente. Ci avrebbe fatto piacere segnare in un’altra occasione, ma ci teniamo molto stretto il gol realizzato. Soltanto nel finale della gara di ritorno (il 30 marzo, presumibilmente all’Olimpico, ndr) potremmo prendere in considerazione il gol segnato fuori casa nella sfida di ieri. Per il resto, dovremmo giocarcela come se non avessimo pareggiato».  si sofferma poi sulla possibile riforma dei vivai. «Per vedere i giovani - dice - fare strada nelle prime squadre, bisogna fissare delle regole. Arrigo Sacchi ci ha esposto il volere della Federazione, che però non è ancora stato ufficializzato: creare una seconda squadra, sul modello spagnolo. Che non siano squadre in cui dirottare giocatori anziani o non utilizzati dalle prime squadre, ma con la prospettiva di formare in campionati veri dei giovani che poi hanno maggiori possibilità nel calcio dei grandi. Per esempio, la Roma ha giocatori in giro come Scardina e Malomo che vengono utilizzati poco che potrebbero essere perfetti per questo tipo di ragionamento. Bisogna offrire ai giovani una chance di essere cresciuti in campionati veri, ma in squadre gestite da società che sono proprietarie dei calciatori stessi». Alberto non sa cosa accadrà quando la Roma diventerà americana. «Noi - spiega - come punto di riferimento abbiamo Bruno Conti. Per il resto non abbiamo alcuna notizia su come verrà gestito il settore giovanile e in questo momento non abbiamo neanche la smania di cercare informazioni. Vedremo».

Non sempre chi arriva in Primavera riesce ad affermarsi nel palcoscenico della Serie A. «Spesso i ragazzi si perdono», sottolinea con rammarico il tecnico. «Anch’io - ammette - ritenevo che qualcuno, tra i ragazzi che ho allenato, potesse fare una carriera diversa. Per esempio ricordo Landolina, sul quale avrei messo la mano sul fuoco. Rivedevo in lui le giocate di Rivaldo. L’ho un po’ perso di vista, è andato al Chievo, poi al Prato, ma non è riuscito a sfondare». Per , non basta solo la classe. Ci vogliono testa e sacrificio. «Prendete Crescenzi. Gioca con continuità e lo conosco molto bene. L’anno scorso giocava poco ma ha insistito, applicandosi e ora sta trovando spazio. Perché quando sei giovane la testa conta tantissimo. Lui sa cosa sia lo spirito di sacrificio. E questi sono presupposti per consentire ai ragazzi di giocare nelle prime squadre». Ecco, questo è il segreto perché possa sbocciare un campione. E Alberto lo sa come avviene. Il campione ce l’ha avuto a casa. Lo teneva per mano un giorno di inizio estate, ventisette anni fa.