San Pellegrino come Paolo Negro

17/01/2011 alle 10:58.

IL ROMANISTA (T. CAGNUCCI) - Non è tanto strano che alla fine una delle partite più brutte del campionato siamo riusciti a vincerla, no, quello capita e ricapita nel calcio, è che in una delle più brutte partite giocate della Roma alla fine ci trovi dentro tante cose belle. Anche bellissime. Una specie di cesto dei miracoli. A cominciare da

Roma alla fine ci trovi dentro tante cose belle. Anche bellissime. Una specie di cesto dei miracoli. A cominciare da piacevolissimi imprevisti, variabili irrintracciabili nella nostra storia: traverse e rimpalli favorevoli, ribattute decisive finite sui piedi giusti, autoreti all’ultimo minuto, tutti elementi da romanzo e non di una partita giocata veramente in bianconero: senza sole, come dentro uno schermo di una cucina al neon Anni 70, col Cesena vestita da Germania di quelle stagioni con Beckenbauer. Ci devi mettere la mano per crederci veramente.
E’ quasi un rompicapo, un enigma che tiene in scacco una à e che non basta nemmeno San Pellegrino (esagerato per natura) a spiegare. No, nemmeno Paolo Negro che in queste occasioni ricorre sempre, anche se hai vinto proprio 1-0, hai fatto gol proprio sotto quella porta, e proprio a tre giorni dal derby. Ci sarebbe anche una spiegazione più cara (e più seria), e per questo bella da raccontare: Agostino Di Bartolomei qui a Cesena un anno ci ha giocato e in quell’anno segnò proprio oggi, era il 17 gennaio 1988, il gol di una partita poi vinta 1-0. Ma questa forse è solo una delicata coincidenza. Ci sono altre cose bellissime, infilate proprio alla fine dentro questa partita, difficili da spiegare.
 
Provate a spiegare l’esultanza di Adriano: un giocatore che ha fatto due gare da titolare, criticato da trequarti di chi ha penna o voce, che voleva restare in Brasile, che non giocava da più di un mese e che probabilmente il prossimo anno se ne andrà. Strilla come un ragazzino romanista, come qualsiasi altro tifoso della Roma, come se fosse sempre stato della Roma e non un calciatore che ha giocato un centinaio di minuti
da titolare con questa maglia. Provate a spiegare l’esultanza di Mirko Vucinic che nemmeno un quarto d’ora prima era uscito prendendo a calci bottiglie e regole. Eppure, l’egoista che avrebbe voluto ancora giocarla e vincerla da solo, esulta così - da uomo - per una vittoria non firmata da lui e che, anzi, è arrivata proprio quando è uscito lui. Provate a spiegare l’esultanza di . Il capitano triste a Trigoria era il più felice di tutti, pure di tutti quanti i quattromila romanisti al Manuzzi. Provate a spiegare tutto questo dopo Marassi, dopo quello che si era detto e che era successo in settimana e durante tutta la stagione, dopo le critiche (giuste) all’allenatore, i viaggi di Pizarro e i retropassaggi di Juan, il mercato che non c’è, la banca che chissà che farà, e dopo una partita giocata in contropiede contro la quart’ultima in classifica.
 
Eppure alla fine sembrava una squadra di fratelli. Di fratelli che avevano appena salvaguardato il bene più prezioso per i propri figli. Tutto il resto è opinabile, relativo, Pirandello. L’allenatore che sbaglia la partita ma che alla fine indovina i cambi, il gioco che non c’è ma ci sono i tre punti, la classifica figlia di un dio minore del Cesena eppure la considerazione che qui ci avevano perso Milan e Lazio. Verità a due facce. Ma quello che conta sono quelle altre facce, quelle dei tifosi, di Adriano, di Vucinic, di i romanisti. È la Roma. Non provate a spiegarla.