Roma in Barça? Una cooperativa

29/12/2010 alle 08:57.

IL ROMANISTA (A. VELTRI) - Si fa un gran parlare, soprattutto in questi giorni, della possibilità di applicare il


particolare, il progetto dell’azionariato popolare affascina tanto noi tifosi, quanto molti commentatori. Occorre però valutare nel dettaglio in cosa consista questo sistema, adottato da club quali Real Madrid e Athletic Bilbao, oltre che dal . Il modello del , è, fra questi, quello più riuscito in termini di partecipazione tout court, in cui l’intervento popolare è continuo e attivissimo. Elemento centrale di distinzione rispetto agli altri sistemi di azionariato popolare è la forte identificazione esistente tra il club e la sua regione, che implica che si cerchi di garantire il maggior contributo possibile da parte dei catalani. Inoltre si sfrutta un sistema di "internazionalizzazione", con le nuove tecnologie, con l’utilizzo dei mercati televisivi stranieri, di internet, di stelle di caratura mondiale (senza dimenticare la cantera, il vivaio, Puyol, Guardiola e compagnia bella), proprio per evitare una chiusura della società al solo ambiente regionale e per cogliere le opportunità fornite dalla globalizzazione, valorizzando, al tempo stesso, tramite il marketing, l’essenza catalana della società.

Tutti i cittadini interessati possono acquistare quote del club, in qualsiasi momento e addirittura via internet (sul sito del ) o ai botteghini del Camp Nou, e, comprando azioni della società catalana , contemporaneamente, possono ottenere lo status di socio. Vista la facilità di accedere all’acquisto delle quote, ne consegue che la base degli azionisti è in costante ed esponenziale crescita, con immissione di un flusso costante di capitale liquido nelle casse societarie. A giugno, per intenderci, gli azionisti del erano 175.000 circa, tutti soci del Club blaugrana. E il fatto di essere socio comporta molteplici vantaggi, tra i quali una vera e propria possibilità di partecipazione concreta e reale alla gestione societaria. Si tratta infatti di un sistema di governo estremamente democratico. Ogni quattro anni, tutti i soci possono eleggere il Presidente del , che ha diretti poteri decisionali. E, secondo le normative interne della società catalana, gli azionisti possono intervenire nell’Assemblea Generale e approvare il bilancio. La struttura societaria è, dunque, completamente estranea rispetto alle realtà che governano il calcio italiano. La differenza più evidente rispetto ai club nostrani è rappresentata dal fatto che ogni socio può, esercitando i propri diritti, entrare nei processi strategici e nelle decisioni della gestione, che rimane comunque appannaggio dei vertici manageriali, ricoperti inoltre da persone completamente al di fuori del mondo del calcio, con competenze unicamente economiche e finanziarie. In particolare, gli incaricati dell’area sociale e dei rapporti istituzionali del club si occupano di sviluppare relazioni con gli investitori locali e con i soci catalani e stranieri, facendo sentire, "importanti" i piccoli azionisti. Altro elemento importantissimo per lo sviluppo dei rapporti con gli investitori e con la comunità catalana è la Polisportiva.

La società, infatti, oltre al calcio, ha inclusi nel proprio Statuto decine di sport, che, se da un lato radicano ancor di più la realtà locale al club (ad esempio, è quello che succede col basket), dall’altro lato costituiscono un sistema ulteriore per promuovere il marchio "calcistico" del Barca, anche tramite lo sviluppo della Ciudad Deportiva, il magnifico complesso sportivo dei Blaugrana. E infine c’è la Fondazione , la Fundaciò, vera e propria "cassa interna" societaria, che si occupa di sviluppare attività culturali e sociali, oltre che sportive, rivolte alla comunità locale ed anche mondiale (come la campagna contro l’Aids o per l’Unicef). Quindi la Fondazione, dotata di un budget annuale piuttosto importante, rappresenta una forma avanzata di gestione delle attività sociali, collabora con altre istituzioni culturali, di carità e artistiche, promuovendo persino musei, biblioteche e progetti spesso rivolti ai giovani, che accentuano ancora di più i rapporti fra la comunità catalana ed il club. Insomma, il è un modello vincente, per complessità strutturale, per distinzione di ruoli, per incremento costante dei flussi economici, per solidarietà, per radicamento nella sua à e regione e, infine, per democraticità del suo Statuto, effettivamente caratterizzato dall’azionariato popolare...per dirla con i termini di Romanzo Criminale... "tutti capi". Ora, questo modello è esportabile in Italia? Il problema principale del sistema italiano è che, secondo la legge del 1981 sul Lavoro Sportivo, è necessario, per l’iscrizione ai campionati professionistici, che le squadre assumano la forma di società di capitali, quindi solo Società a Responsabilità Limitata o Società Per Azioni, in modo tale da assicurare una certa solidità economica e gestionale al club.



L’unica organizzazione societaria in Italia in grado di dare questo tipo di partecipazione è quella cooperativa, che garantisce la c.d. "porta aperta", senza limite di numero, che consente l’ingresso di nuovi soci, senza modificare l’atto costitutivo, qualora questi ultimi condividano l’oggetto sociale (la fede calcistica) ed i principi ispiratori dello Statuto della Coop. I soci di quest’ultima hanno, indipendentemente dal quantitativo della quota di riferimento, ciascuno un voto, diversamente dalle società di capitali, in cui la capacità di voto viene stabilita dal numero di azioni possedute. Il problema se le società cooperative rappresentino o meno delle forme di società di capitali è ampiamente dibattuto. In sostanza, una parte degli esperti di diritto societario ritiene che le coop non siano affatto assimilabili a le s.p.a. e alle s.r.l., perché nel codice civile, nelle norme relative alle società di capitali, esse non sono mai menzionate. Un’altra parte degli interpreti, invece, ritiene che le società cooperative siano delle società di capitali, anche se "ibride", perché caratterizzate dagli elementi ulteriori propri di quest’ultima forma societaria, in quanto, secondo il codice civile, ad esse si applicano gli articoli sulle società di capitali, quando siano compatibili e inoltre la Banca d’Italia ha ricondotto le coop a forme organizzative analoghe alle s.r.l. e le s.p.a., in modo tale da garantirne il finanziamento da parte degli Istituti di credito. In quest’ottica, quindi, le società cooperative potrebbero essere considerate forme legittime di società di capitali e le squadre con questo modello organizzativo potrebbero iscriversi nel campionato italiano, rispecchiando il sistema - . Venendo, in particolare, alla nostra amatissima As Roma, sono totalmente diversi da questa struttura gestionale i progetti di affidare ad altri soggetti giuridici l’acquisto di quote societarie, come possono essere quelli di MyRoma e di eventuali Fondazioni o "Trust".

In queste situazioni, non si tratterebbe di un vero e proprio azionariato popolare: sarebbe infatti la Fondazione o l’ente MyRoma ad entrare nel capitale sociale e non direttamente i singoli soci. Si tratta comunque di una iniziativa lodevole, che consente un’ampia partecipazione interna dei tifosi nell’ente, il quale ottiene effettivamente la qualifica di "socio", ma che non rispecchia un modello di gestione diretta. È l’ente che acquista le azioni e rappresenta gli associati, ossia le persone che hanno dato il proprio contributo a MyRoma o a qualsiasi ipotetica persona giuridica o di fatto per comprare le azioni della nostra Roma. E, in più, per una Fondazione od un trust, quindi per un ente non a diretta partecipazione popolare, il contributo importante di "piccoli azionisti", parcellizzato per quote di qualche milione di euro, non sarebbe sufficiente concretamente

all’acquisto e alla successiva gestione della Associazione Sportiva.

A mio avviso, difatti, si tratterebbe di una sorta di grossa cordata, per la quale occorrerebbe, in ogni caso, l’intervento di qualcuno con più capitale degli altri che, di fatto, diverrebbe l’effettivo proprietario della società. Seppur quindi con una maggiore democraticità interna, nell’uno o nell’altro caso non potrebbe essere rispecchiato il modello del . Per poter vedere questo esempio internazionale in Italia sarebbe, infatti, necessaria una interpretazione meno rigida dell’obbligo di iscrizione al campionato da parte delle società di capitali, che includa anche le cooperative.