Sempre la stessa finta? Chiedetelo a Nesta, lo sta ancora cercando

06/11/2010 alle 13:31.

IL ROMANISTA (P. MARCACCI) - Marco Delvecchio e il derby. Binomio indissolubile, al punto che quella e potrebbe tranquillamente avere l’accento, da semplice congiunzione a verbo essere. Ancora al presente, sissignore, perché Delvecchio è ancora come se fosse lì, nella maniera in cui più vi piace pensarlo, delle nove tra le quali potete scegliere: a spizzarla di testa dopo mille respinte, a fintare per la millesima volta da quella parte dove Nesta ebbe il più rovinoso dei suoi mancamenti, oppure a protendersi oltre l’ultimo centimetro consentito,

 

Quel duemilauno volle dire scudetto, lavoro oscuro ed indispensabile, qualche goal in meno: numeri e doveri ben diversi rispetto a quando recitava nel terzetto avanzato del tridente zemaniano. Ma tanta Lazio in più, datagli in pasto ad ogni stracittadina: ogni volta un passo verso Da Costa, ogni goal un pezzetto di Curva Nord che si sgretolava. Siccome i goal sono come i sentimenti, che è bello veder sgorgare in ordine sparso, cominciamo dal settimo, per due ragioni: era il derby di ritorno della stagione 2000-2001, Lazio quasi “scucita” e Roma che stava rallentando, o riprendendo fiato se preferite: Roma già avanti grazie ad un giro di caviglia di Batistuta, tra l’altro servito a centro area proprio da un assist di Delvecchio, filato via sulla sinistra con un doppio passo quasi alla Biavati, palla morbida di Zanetti all’altezza del vertice sinistro dell’area di rigore e iper-estensione di Delvecchio che col sinistro carezza in diagonale quel tanto che basta per far rotolare anche

Peruzzi, incolpevole, in fondo al sacco. La seconda ragione per cui abbiamo cominciato da questa segnatura è che a giudizio insindacabile di chi scrive è stata anche la più bella. Cronaca vuole che poi quel derby sia terminato 2-2 (Castroman, chi era costui?) ma pochi mesi dopo nessuno più se ne ricordato… Prima, però, ci furono il terzo, il quarto, il quinto e il sesto: due doppiette, una per l’ultimo Zeman, l’altra per il primo Capello: due derby epici, che costrinsero la storia a confrontarsi già con Delvecchio: cinque goal in tre derby fino ad allora li aveva segnati solo Da Costa, nessun record era più al sicuro. E vediamole, allora, queste doppiette, una più bella dell’altra, la seconda più rapida della prima: 11 aprile ’99, Lazio in odore di scudetto, testa a testa con il Milan e derby; il derby del “Vi ho purgato ancora” di , un 3-1 che alla Lazio fece malissimo e alle convinzioni dei laziali ancora di più, un derby stradominato dalla Roma, una Roma che seppe badare anche all’estetica, che fu spettacolare e cattiva, udite udite senza concedere molto (c’era Zeman in panca) ad una Lazio che forse meritava più quello scudetto di quello che avrebbe vinto l’anno dopo grazie all’imbarcata juventina di Perugia. Delvecchio per due più , un discount di emozioni, Mancini a testa bassa.

Altra doppietta, altra storia: primo anno di Capello, pragmatismo ancora senza risultati, dall’altra parte una Lazio che nel favore dei pronostici arrivava a vela a quel derby d’andata: 21 novembre e sempre il 1999, che declinava come una punizione a foglia morta di Assuncao. Fu come un orgasmo collettivo, addirittura precoce, se fosse possibile trovargli un difetto: in trentaquattro minuti fecero doppietta Montella e, ovviamente, Delvecchio; Eriksson in panchina sembrò accettare il tutto con piglio svedese o, semplicemente, era troppo frastornato per rendersi conto di quello che stava capitando. Sotto la Nord, tra l’altro. C’era più gusto. Ci tocca fare un saltino, per parlare dell’ottavo goal di Delvecchio in un derby. E che derby. E che saltino, bisogna aggiungere, perché a Delvecchio quella sera toccò scavalcare la sagoma di Nesta finito a terra sotto l’ipnosi dell’eterna finta da sinistra, prima di depositare in rete quell’uno a zero che poi avrebbe trasformato in due.

 

La leggenda narra che ancora oggi, nelle fredde notti lombarde, Alessandro Nesta ogni tanto si svegli di soprassalto urlando di terrore, quando sogna la maglia giallorossa numero ventiquattro. Era il 27 ottobre del 2001, lo scudo già sul petto e un altro che sembrava impossibile potesse sfuggire alla truppa di Capello.

Vabbè, chiedere a Moggi e Giraudo per conoscere i particolari di quel campionato. Adesso però, nel nostro disordine organizzato di sentimenti e ricordi, ripassiamo dal via, da un derby perso contro una Lazio resa già stellare dagli investimenti, dei quali qualche anno dopo si conobbe l’origine, di Sergio Cragnotti, quello a proposito del quale Franco Sensi disse: «Io sono un imprenditore, lui un finanziere» e quanto aveva ragione.

Sempre d’autunno, primo novembre del ’97, Lazio avanti già di tre, passivo che sarebbe stato da record, se Delvecchio non c’avesse messo lo zampino. Anzi no, la testa, a pizzicare l’angolino basso alla sinistra di Marchegiani, su un cross che sembrava provenire direttamente dalla Tevere. Sempre di ottobre e sempre di ventisette, giorno in cui la Lazio evidentemente (ciclisticamente parlando, da bravi “polisportivi”) «prendeva

la paga», arrivò il nono, su una percussione per vie centrali di che favorì l’inserimento di Montella con battuta a rete e parata a terra di Peruzzi, che non trattenne. Neppure Delvecchio seppe trattenersi, lì nei pressi: momentaneo uno a uno di un derby che poi sarebbe finito due pari, con tanto di rigore parato a Sinisa da Antonioli, in plastico volo per l’occasione. Stagione 2002-2003, Delvecchio raggiungeva Da Costa. Il nono, quindi anche l’ultimo?


 

No, manca il decimo, quello che non troverete negli almanacchi e in nessun tabellino; ma se fate una graduatoria delle vostre urla, di sicuro finisce sul podio o giù di lì: era il 29 novembre del 1998 e Delvecchio aveva già regolarmente segnato il suo goal numero due in una stracittadina, su un tranciante da sinistra

nientemeno che di “Pierino” Wome, per chi se lo ricorda. Poi, Lazio avanti per 3-1 e Petruzzi espulso. Come fare a sperare? Grazie a Di Francesco e e sempre sotto la Sud. Arbitro Farina. Notazione a margine? No, il nome dell’ ”assassino”: su punizione di da sinistra Delvecchio aveva fatto 4-3. Perché venne annullato? Neppure il lazialissimo Carlo Longhi, quella sera, seppe dire perché. Consoliamoci pensando che forse fu meglio così, perché molti di noi quella sera non avrebbero retto all’emozione e così ci saremmo persi tutto quello che era di là da venire e che avrebbe portato la firma, quasi sempre, di Marco Delvecchio.