La mia Roma con Sormani

06/05/2010 alle 12:56.

IL ROMANISTA (S.ROMITA) - Era la persona più felice del mondo anche Michele, che imitava Sormani in tutto e per tutto. Arrivavamo alla fine della strada sterrata e stretta circondata da grandi cespugli pieni di spine e di more. A forza di passarci in mezzo e di graffiarci le gambe avevamo aperto dei passaggi che con i giorni e i mesi erano diventati accessibili. Ci arrampicavamo un po’ in salita e arrivavamo ai campetti.

Gli alberi che delimitavano questo campetto erano ulivi bellissimi dove appendevamo la roba. I vestiti e, chi le aveva, le sacche. Gli ulivi fungevano anche da linee laterali. O ci si sedeva all’ombra un arbitro alla buona. Uno che non aveva trovato posto, perché era scarso anche per fare il volante o che al primo errore grossolano veniva spedito alle radici degli ulivi. Io giocavo spesso in quello affiancato al campo dei grandi. Loro "pescavano" tra di noi i giocatori che gli servivano per arrivare a fare undici contro undici. Ci spiavano mentre si cambiavano e selezionavano i migliori. Che poi si fa per dire che si cambiavano. Molti arrotolavano i pantaloni e giocavano in canottiera, e le scarpe erano quelle di tutti i giorni. Mocassini che volavano via al primo tiro forte. Erano i ragazzi dai sedici diciotto in su, che alle tre e mezza dovevano correre con le biciclette ad aprire le serrande dei negozi, mettersi il grembiule e iniziare a lavorare. Uno di loro anni dopo, molti anni dopo, mi venne a casa a portare e montare degli elettrodomestici. In un quartiere completamente diverso da quello della nostra infanzia. Ci abbracciammo come dopo un gol e gli diedi una mancia astronomica.

E con gli occhi ci eravamo detti tutto. Sul campo erano duri e violenti. Si picchiavano ad ogni fallo, si spingevano e si prendevano a testate. Ho visto sardi di un metro e trenta distruggere "armadi" di cinquanta centimetri più alti e di cento chili di peso. Il calcio era così. Quando mi chiamarono a giocare con loro fui orgoglioso. Avevo capito, osservandoli attentamente, quali fossero i loro difetti e i loro numeri migliori. Conoscevo di ognuno i lati del carattere e le capacità. Non dovevo far altro che liberarmi del pallone rapidamente e in modo intelligente. Lanci lunghi a tagliare la difesa (il mio numero preferito), passaggi rapidi e smarcanti tra due avversari, calci d’angolo o punizioni di seconda. Loro erano megalomani. Si avvitavano su se stessi in dribbling interminabili senza concludere nulla. Spesso al termine di azioni di questo tipo cadevano a terra esausti o colpiti alle caviglie duramente. Non volevano battere le punizioni di seconda o i corner, perché volevano solo tirare in porta. Il resto del lavoro non li interessava. A me si. Molto. Piaceva mandarli in rete consegnandogli la palla in mezzo all’area pronta per il successo. La loro gioia diveniva incontenibile e il giorno successivo eri tra i primi ad essere scelto. Due partite al giorno erano il minimo. Talvolta riuscivo a giocarne anche tre. Il sabato e la domenica. Oppure d’estate. Quando la luce restava alta e la scuola era solo un brutto ricordo. Altrimenti, appena calato il sole, dovevo tornare a casa, lavarmi le ginocchia con la spugna che faceva calare l’acqua lungo le gambe fin dentro i calzettoni, fare merenda e sedermi alla scrivania. Perché in cucina, prima di cena, mia madre voleva sentire alla perfezione che cosa avevo studiato. E se ero pronto per la mattina seguente. Non lo ero quasi mai. Mi minacciava di farmi fare il garzone da "Demofonti" (il nostro droghiere), ed io pensavo che tanto avrei potuto giocare a pallone fino alle tre e mezzo. E andare in bicicletta. Non era poi così male.