IL ROMANISTA (F. BOVAIO) - QUESTIONE DI bandiere e di attaccamento alla maglia, ai suoi colori, alla terra che rappresenta, alla squadra. Allo stadio in cui gioca, ai tifosi che la seguono e per essa ridono, piangono e vengono pure sbeffeggiati. Questione di leader che diventano tali perché così riconosciuti dalla loro gente per acclamazione. E poco importa se per ripagarla con la loro fedeltà essi finiscono con il vincere meno di quello che avrebbero ottenuto se, tradendola, fossero andati a giocare in altre squadre, magari moto più forti e spinte dai venti favorevoli rispetto a quelle alle quali hanno giurato..
Ora, si badi bene, rifiutare la Juve in quegli anni 70 in cui era la dominatrice assoluta del nostro calcio in campo e fuori e nei quali la Sardegna non era ancora la meta di vacanze dorate ma una terra considerata brulla e inospitale, buona solo per lesilio, fu un gesto di unimmensità assoluta che solo un grande uomo, prima che un grande campione, poteva essere in grado di compiere. «A quei tempi quando andavamo a giocare in trasferta ci dicevano di tutto, ma soprattutto ci chiamavano pastori, pecorai, banditi» ha raccontato qualche tempo fa Riva. Cosa cè di diverso dal gridare "pastori", "pecorai", "banditi" ai giocatori che rappresentano un popolo fiero e leale quale è quello dei sardi, dal dire "romano di merda" ad uno dei miti riconosciuti della nostra città? Quello forse non è razzismo?
Ecco, in quegli anni in cui Riva giocava portando il suo Cagliari a compiere limpresa di sovvertire il potere costituito sempre dalle stesse (Juve e Inter su tutte, poi anche il Milan, ma molto dopo di loro) lopinione
pubblica italiana che contava aspettava sempre il momento giusto per dargli addosso e rimproverarlo della sua scelta di stare in mezzo a quei "pastori" dei sardi anziché andare a giocare nelle grandi squadre del nord che gli avrebbero consentito di vincere molto di più di quello che poteva fare in Sardegna.
Le stesse cose, in pratica, che da dieci e più anni stanno dicendo a Totti, reo, ai loro occhi, di aver scelto la Roma per sempre e di non aver mai preso in considerazione lidea di indossare una maglia a strisce bianche e nere o unaltra a strisce nere e azzurre o rossonere. Reo, in pratica, di aver legato il suo nome a quello di una città che non a caso viene definita "eterna" e che tutti quelli che ne stanno fuori odiano e disprezzano, salvo poi cominciare ad adorarla una volta che vi mettono piede beneficiando del suo clima, del suo saper
vivere e lasciar vivere, del suo modo di essere. Quanti esponenti di quella Lega che quando tornano nelle loro valli la definiscono "ladrona" vivono molto bene quotidianamente nelle nostre piazze e nelle nostre vie
mangiando a quattro ganasse nei nostri ristoranti e godendo del nostro clima?
È interessante, oggi, rileggere cosa disse Riva su Totti nel libro a questultimo dedicato dalla casa editrice "Libri di Sport" alla vigilia dei Mondiali di quattro anni fa: «A questo calcio fa comodo dipingere Totti come un ribelle. Invece lui è un giocatore le cui qualità non sono mai state messe in discussione. Bisognerebbe resistere non cedere alle provocazioni, è vero; tuttavia considero la reazione più umana e sana rispetto al comportamento premeditato di chi la innesca». Parole più attuali che mai alla luce di quanto è accaduto nella finale di Coppa Italia contro lInter. Non cè niente da fare. Le bandiere tra loro si capiscono e si comprendono, perché sanno bene quante ne hanno dovute passare e subire per diventare bandiere. Come Gigi Riva e Francesco Totti.