Di Bruno ce n’è uno ma i Conti sono due

09/05/2010 alle 12:05.

IL ROMANISTA (M. MACEDONIO) - CHI NON è più giovanissimo se lo ricorda ancora, quella sera, all’Olimpico, mentre, insieme al fratello Andrea, correva accanto a papà Bruno. Era il 23 maggio del ’91, quando, in uno stadio pieno come poche altre volte, nonostante si fosse all’indomani di una finale di Coppa Uefa persa amaramente, Bruno Conti dava il proprio addio al calcio giocato. Aveva poco più di dodici anni, Daniele, e quella sera vestiva la maglia azzurra con cui papà Bruno aveva vinto il Mondiale dell’82. Andrea, appena un po’

più grande, indossava invece quella giallorossa, con il 7 sulle spalle, quello stesso cantato da Francesco De Gregori, per intenderci. Una leva calcistica che li aveva visti crescere insieme a Trigoria, Daniele ed Andrea, all’ombra del papà, la cui eredità non sarebbe stato facile raccogliere per entrambi, che pure hanno esordito

in serie A con la maglia della Roma nella stessa stagione, ‘96/97, quella con Carlos Bianchi in panchina.



Toccò prima a Daniele, il più piccolo, allo scadere di un Parma-Roma di fine novembre finito 0-0, mentre Andrea dovette attendere l’aprile successivo, in un Cagliari-Roma (!) vinto 2-1 dai sardi.

Se la carriera di Andrea ha preso strade meno fortunate, quella di Daniele ha imboccato un binario di tutto rispetto, che lo ha portato ad essere, oggi, un’autentica bandiera della squadra rossoblù. Ma andiamo per gradi. Prima di approdare in Sardegna, infatti, il giovane Daniele ha fatto in tempo a giocarne altre quattro di partite con la maglia giallorossa. Non subito, ma due anni dopo, nel ‘98/99, mèntore, quell’anno, Zdenek Zeman. E segnando anche un gol, sotto la Sud, in un 5-1 contro il Perugia, dove l’esultanza gli costò addirittura l’espulsione, visto che era già ammonito.

Prove non sempre felici, quelle poche in cui fu chiamato ad esprimersi. Con qualche errore di troppo, anche sul piano comportamentale: a dimostrazione che se è lecito che un campione sbagli, a maggior ragione può sbagliare il figlio di un campione. Tanto più se si tratta solo di un buon giocatore, perché no, anche ottimo, ma non necessariamente, a sua volta, un fuoriclasse, visto che non a tutti è dato di esserlo o di diventarlo.

Il percorso professionale di Daniele Conti è comunque di quelli che, con il passare degli anni, si fanno sempre più apprezzabili. Una carriera, la sua, che l’ha visto crescere sotto tutti i profili, da quello tecnico a quello disciplinare. Con quel legame con Roma che, complice anche la permanenza di papà Bruno nei quadri della società giallorossa, non si è mai spezzato. Ma che proprio per questo, e alla luce anche del distacco, non indolore, che comportò la sua cessione al Cagliari nel ’99, ha dato luogo ad un rapporto di odio e amore in cui si mescolano passione e risentimento, voglia di rivincita e affetto filiale. Ne sono l’esempio le prestazioni di Daniele proprio contro la Roma, a dispetto di chi pensa, anche in queste ore, che la sua presenza nelle file del Cagliari possa costituire un vantaggio per la squadra giallorossa.

Parole pronunciate da chi non conosce la storia di quei confronti, o, più verosimilmente, ha deciso di usare ancora una volta strumentalmente qualsiasi pretesto per portare, in malafede, acqua al proprio mulino a corto di macina. Fatto sta che la Roma, insieme alla Samp, è la squadra alla quale Daniele ha segnato il maggior numero di gol, sui 33 complessivi realizzati fin qui in carriera. Gli ultimi due proprio in queste ultime due stagioni. In quella passata - era il 14 dicembre del 2008 – mise a segno la rete dell’1-1, in quella gara all’Olimpico che si risolse, grazie a anche al gol di Vucinic al 90’, con la vittoria della Roma per 3-2. Certamente più pesante quella di quest’anno, che è valsa il 2-2 in pieno recupero al Sant’Elia.

E dopo che, due minuti prima, proprio un suo fallo su Cassetti - non rilevato dall’arbitro ma ammesso dallo stesso Daniele a fine partita - aveva permesso al Cagliari, con Lopez, di accorciare la distanze. «Ho detto a mio figlio che proprio non mi vuole bene» commentò in quell’occasione Bruno. Un intreccio di emozioni che si è ripetuto più volte, protagonisti padre e figlio. Come in quel 13 marzo del 2005, quando Daniele, in verità, non segnò, ma il 3-0 con il quale la sua squadra battè la Roma, lo vide ancora una volta uscire dal campo festante, rovinando per giunta a papà Bruno il suo 50° compleanno. Un giorno che Bruno, però, ricorderà a lungo. L’indomani arrivarono infatti le dimissioni di Delneri. E proprio lui, il Marazico da Nettuno, che quattordici anni prima aveva salutato la curva da giocatore, l’avrebbe ritrovata, sia pure per qualche mese, come allenatore. In  virtù, o per colpa, di quella sconfitta. E di quel figlio che, anche se non lo sa, come quel 23 maggio ancora

gli corre accanto…