Non succede... ma se succede...

01/04/2010 alle 09:42.

CORSPORT (M. BASILE) - Questa è una città lucidamente pazza. Paralizzata dal sogno. Matura per lo scudetto. Basta osservarla. Via Prenestina, via della Serenissima, via Tiburtina. Ban­diere? Zero. Sciarpe appese alle ringhiere? Zero. Molte parabole, però. Le uniche due cose giallorosse che si notano percorrendo questo trilatero romano sono un’insegna del macdonal e un telo da mare col disegno di un delfino. Per il resto, lungo le due file di palazzoni di nove piani che si affacciano sul traffico del mattino si contano due tri­colori sfilacciati, una bandiera della pace annerita di smog e una dei pirati, con il classico teschio e le ossa incrociate.



In Brasile qualcuno ha scritto che «vedere solo il pallone è come non vedere niente» in­tendendo l’azione, il gesto atletico, l’idea sfrontata di cambiare il destino di una parti­ta, così cercare una manifestazione croma­tica, un qualunque straccio giallorosso in una à pazza di Roma è come rinunciare a vedere le cose come realmente sono di­ventate.



Se in passato i romanisti vincevano per strada scudetti che poi la squadra perdeva immancabilmente sul campo, adesso i tifo­si quasi si nascondono. «Ecché ne avemo prese poche de scoppole?» , dice una fiora­ia ambulante, Paola, romanista, viso roton­do e scollatura solare, davanti al muro del cimitero Monumentale del Verano, lato Portonaccio. A pochi metri, seconda strada a sinistra, c’è il tempietto dove è sepolto Franco Sensi, il presidente. Pochi fiori, niente sciarpe, gli unici gagliardetti sono quelli della Roma Primi Calci depositati al­l’interno della cappella di famiglia.



La parte di Roma giunta a un punto dal­l’Inter appare conta­giata da una strana prudenza, qualcosa di diverso dal passato, da quel finto disilluso « non succede ma se succe­de » che accompagnò la squadra a giocarsi lo scudetto all’ultima giornata, due anni fa. Qui la prudenza ha una storia lunga e dolo­rosa, da manovrare con cura. La nascita si fa risalire alla festa pre-scudetto che orga­nizzarono prima di quel Roma- Lecce dell’86, penultima giornata, con i pugliesi retrocessi, eppure finita con la sconfitta per 3-2 in casa. In realtà nessuno da allora è mai seriamente riuscito a contenersi. Con la Roma di Spalletti erano decine le ban­diere che pavesavano le strade del centro fin dal settembre. A ottobre era fatta, a di­cembre era scudetto, a gennaio Circo Mas­simo, a marzo era perso tutto.



Per la prima volta è come se il popolo giallorosso non si trovasse due metri da­vanti alla squadra, ma dietro, e lasciasse par­lare di scudetto solo i giocatori.

« Noi non possiamo, per carità - mette le mani avanti Lando Fio­rini, nel suo studio al Puff, Trastevere, da­vanti alla gigantografia della festa scudetto 2001 al Gianicolo con - l’altra sera c’era in platea il padre di Francesco, che io chiamo l’elettricista perché accende la luce della Roma, insom­ma c’era il papà, Enzo, e io ho detto subi­to: ragazzi, non pronunciamo quella paro­la » . Eppure se i romanisti giocano a na­scondersi durante la settimana, e lasciano l’entusiasmo ai luoghi classici, il centro sportivo di Trigoria, Testaccio, i Roma club, quella giallorossa è un’onda che cre­sce e che, in pochi mesi, ha portato al­l’Olimpico il boom demografico: dai 29 mi­la paganti per il derby con la Lazio ai 36 mila con il Milan e i 38 mila con l’Inter (e 1 milione e 466 mila davanti agli schermi di Sky, record stagionale per una partita gio­ alle 18).

«Uno stadio così vivo non l’avevo mai vi­sto - confessa Michele Malfetta, do­cumentarista e tifoso dell’Inter, sabato al­lo stadio - ho pensato che il loro gol del 2-1 non fosse casuale, ma prodotto dall’ener­gia del pubblico, come se una mano invisi­bile li avesse spinti alla vittoria».

Un pubblico maturo, una normalità stra­ordinaria che farebbe felice Giampaolo Montali, l’uomo di riferimento della pro­prietà, che il primo giorno disse alla squa­dra: niente proclami, niente proteste, nien­te vittimismo. Dopo l’espulsione di Taddei a Udine per proteste ( il brasiliano venne multato di 40 mila euro), i cartellini presi per proteste sono crollati del novanta per cento. Le polemiche quasi azzerate. «Non abbiamo niente da difendere - disse una volta negli spogliatoi - per questo dobbia­mo solo attaccare, così si diventa grandi».

Così la Roma è arri­vata alla partita di Bari, forse la più diffi­cile. Ma l’entusiasmo c’è. I giocatori verran­no seguiti da tredici­quindicimila tifosi e in à si parla solo di Roma, certo, mentre le radio sportive locali registrano quattrocen­tomila ascoltatori al giorno, e si fa più in­tenso il tumtum di quella dolce ossessione che colpisce a tutti i livelli, come quell’ex prefetto che, nei fine settimana, veniva sempre strappato alla famiglia per parteci­pare a vertici in luoghi che, stranamente, coincidevano con le à dove giocava la Roma.

«La chiave di tutto è nel Colosseo - dice Dennis Usher, ex producer della Cbs, da anni in Italia - qui c’è lo stadio più vecchio al mondo, nel dna dei romani c’è lo spetta­colo, la sfida, il senso della battaglia, il gla­diatore ». Ma c’è altro, come la superstizio­ne, il legame mistico che lega la tribù del calcio. In Brasile, nella Basilica di Nostra Signora dell’Apparizione, tra Rio e Sao Paulo, c’è la stanza dei miracoli, una sala grande come un museo dove accanto a ex voto modellini di navi, trat­tori, elicotteri campeg­giano maglie del Fla­mengo, del Corin­thians, del Botafogo, e biglietti di ringazia­mento o di preghiera per Nostra Signora del Gol. Nella Roma del Vaticano ci sono più di mille chiese, troppe per non confon­dersi con la vita e dunque col calcio. Spes­so dove un mazzo di fiori ricorda una vita spezzata, c’è una sciarpa coi colori della squadra, della Roma o della Lazio. Sotto il Gianicolo, a un lato della sua ultima strada, campeggia la gigantesca foto di un ragaz­zo ripreso in quell’attimo straordinario che precede un sorriso. Indossa un cappellino della Roma, quasi a ricordare che in una vita non completamente sbocciata una pas­sione, almeno, era compiuta. Ma questa è la stessa à dove dicono, non proprio con queste parole, che se il Papa stesse a Mila­no e si affacciasse dal Duomo in un giorno di nebbia nessuno lo vedrebbe, così vestito di bianco e che, in fon­do, non c’avrebbe nien­te da vedere da lassù.



Un colpo di clacson al semaforo di viale Castro Pretorio serve a lasciare i pensieri e a immergersi di nuovo nella realtà romana: neanche gli scooteri­sti mostrano i segni giallorossi e sui muri non c’è scritto forza Roma ma «Io la crisi delle banche non la pago». Eppure la pas­sione scorre nelle vene di una tifoseria che ha voglia di impazzire un poco alla volta.

«E’ che i romani sono pieni di emozioni» , spiega Roberto, quarant’anni, che vive per strada, a Trastevere. Barba incolta e mani annerite, il pc portatile sistemato tra le scatole di cartone, Roberto è uno dei filo­sofi del selciato che animano le strade del quartiere. « I romani, dicevo, sono pieni di emozioni, hanno voglia di godersi la vita, in fondo hanno inventato le terme, come gli antichi Egizi mi tocca pure dirlo, in fon­do ci ricordano qual è il nostro compito sulla terra, qui, dove c’abbiamo il Vatica­no, il Colosseo e tutto il resto, è che noi sia­mo qui perché dobbiamo vivere di emozio­ni » . E il calcio? « Il calcio per i romani è emozione » .



 Poche sciarpe appese zero proclami, la gioia si concentra soltanto davanti a Trigoria o nei molti Roma club E’ come se per la prima volta la gente sentisse che adesso il sogno è possibile Non come in passato Qualcuno fa risalire la scaramanzia dei romanisti alla famosa beffa dell’86 e a quel ko subito con il Lecce Anche se la tifoseria non si lascia prendere dall’entusiasmo, allo stadio è un vero boom di spettatori Anche sul satellite la squadra è diventata quella del momento Con l’Inter record di ascolti per un anticipo Quel rapporto quasi profano che unisce la fede alla passione per un club, che ricorda i tifosi brasiliani...