Menotti, l’Argentina Maradona, i generali e una cyclette

22/04/2010 alle 10:49.

IL ROMANISTA (D.PASTORIN) - Sì, mi decido: ho già mandato i servizi al giornale, la partita dell’Argentina ci sarà soltanto tra cinque ore, il primo pomeriggio è caldo, troppo. Meglio andare in palestra, un po’ di sana cyclette. Luglio 1993, hotel "Oro verde" di Guayquil. Sono qui in Ecuador per la Coppa America di calcio, la manifestazione che amo di più: riservata alle nazionali sudamericane, un richiamo del passato (sono a San Paolo del Brasile e sento mie le vene aperte dell’America Latina), tanto football-spettacolo da gustare

Capelli lunghi, lo sguardo intelligente, proprio "el Flaco", come lo hanno soprannominato: il Magro. Cèsar Luis Menotti mi dice "hola!", e si mette a pedare al mio fianco, con un’andatura lenta, studiata, sembra Andrade quando giocava. Mi presento, cominciamo a parlare (io, in verità, rallento: il fiato comincia ad abbandonarmi). Gli dico di essere un suo estimatore, da sempre. Da quando, al mundial argentino del 1978, quello dei dittatori, dei desaparecidos, delle nonne e delle madri di "Plaza de Mayo", quello vinto dalla Selecciòn grazie alla partita truffa con il Perù prima del successo a Buenos Aires, nella finale per 3-1, contro l’Olanda, si rifiutò, lui l’allenatore, alla pari del goleador Mario Kempes, di stringere la mano al generale Videla e agli altri militari in tribuna d’onore. Di più: pochi minuti prima della sfida con gli olandesi, urlò ai suoi giocatori nello spogliatoio: «Dobbiamo vincere per la nostra gente che soffre, non per i generali e per i loro complici».

El Flaco si aggiusta i capelli («Ma davvero non si può fumare qui dentro?»). Ferma la pedalata: «Erano tempi duri. Quella Coppa rappresentò una vetrina per la dittatura. Sapevamo e non sapevamo. Ma certe cose giungevano anche noi. Adesso, tutto è chiaro. Chi ha sbagliato sta cominciando a pagare». Menotti rischiò di non guidare la nazionale biancoceleste: primo, per le sue idee di sinistra; secondo, per non aver convocato il fenomeno nascente, Diego Armando Maradona, il 10 spettacolo dell’Argentinos Juniors. Sorride, con furbizia. Sembra un personaggio di Borges, uno del quartiere Palermo: «Sono sempre stato un progressista, uno che guardava al bene collettivo, a una parità sociale. Pur partendo dalla mia condizione di privilegiato. Buon giocatore, buon allenatore, buoni stipendi. Ma guai, nella vita, a perdere di vista gli altri. No, non piacevo a tanti: ma come potevano rinunciare a uno come me?». Su Dieguito la solita solfa: «Ancora inesperto, da non bruciare in una manifestazione così importante, caso mai confinandolo in panchina». Il Pibe pianse, con rabbia e amarezza: si sarebbe rifatto nel 1986 in Messico, tra colpi di mano e gol impossibili. Gli dico che fu uno scrittore, uno "scrittore fosforico", a segnalare, per primo, Dieguito in Italia: Osvaldo Soriano, l’autore di "Triste solitario y final" e di tanti memorabili racconti sul pallone.

Scrisse una lettera a Giovanni Arpino: «Per il Torino servirebbe un ragazzino, che qui sta compiendo meraviglie, Diego Armando Maradona. Segna, almeno, due gol a partita. Occhio, però: si sta già interessando ai suoi capolavori il ». Ora, provate a immaginare, soltanto per un attimo, il Pibe con la maglia granata! Che derby con Platini! Menotti, quel giorno in palestra, sorvola su Diego: in fondo, sono uno dei tanti a ricordargli quella "svista", invece di rimettermi a pedalare con buona lena. E’ in Ecuador per guastarsi il "buon futbol", allena il Boca ed è, nuovamente, all’apice della gloria. Mi confida di voler provare un’esperienza italiana: «Da voi si gioca un campionato strepitoso, emozionante. Da voi sono arrivati Diego, Michel, Paulo Roberto Falçao, l’intelligenza del pallone racchiusa in una persona, senza contare i ragazzi che trionfarono in Spagna... Chissà, forse, tra qualche anno...». (In effetti, il Magro arrivò in Italia, nel 1997: cacciato dopo otto giornate. Fine di un’illusione, di un sogno. Se ne tornò in Argentina, all’Independiente). Menotti scende dalla cyclette, si riaggiusta la chioma fluente: «Dopo la fatica, ci vuole una sigaretta. Che ne dici?». «Ho smesso di fumare- gli rispondo - nell’88». Mi mette una mano sulla spalla: «Chi vincerà la Coppa America?». «Il Brasile, il mio Brasile, senza dubbio» replico. «No - mi risponde lasciandomi solo nella palestra ai miei problemi di peso- vincerà l’Argentina».