Quella volta a Livorno, nel '35

12/03/2010 alle 09:43.

IL ROMANISTA (F. STINCHELLI) - Righetto, mio padre, aveva due passioni: il calcio e l’automobile. Le coltivava con cura scrupolosa. Non si perdeva una partita (della Roma, va da sé), e la sua Lancia era sempre uno specchio. Dobbiamo capirci: essere al tempo stesso romanista e lancista, in quegli anni Trenta ormai remoti, era un lusso per pochi. Significava appartenere a un’élite di privilegiati, a una sorta di club di unti del Signore, il cui motto suonava così:

State a sentire cosa ti va a succedere in quell’aprile del 1935. A Righetto arriva la nuova macchina. Una Lancia, naturalmente. Un’Astura, in particolare, un’auto da sogno, di quelle usate dal Re e dal Duce alle sfilate. Tutta blu, lustra e con l’interno in panno lenci. Evitiamo in proposito idee sbagliate: mio padre era tutt’altro che ricco, ma, secondo un inveterato stile di famiglia, amava vivere al di sopra dei propri mezzi.

Quell’aprile era già piena primavera e la Roma, quarta in classifica, si accingeva alla trasferta di Livorno. All’interno dell’Astura spiccava, da un lato, il portafiori in cristallo Lalique, con un mazzo di profumate violette. Un’idea di Righetto per ingraziarsi la mamma, con queste parole: "Nine’, da quant’è che non facciamo

una bella gita domenicale? Ne parliamo, ne parliamo...Be’, ’sta volta, ho un’idea precisa e faccio sul serio. Livorno: un cacciucco che non ti dico...". 
E la mamma, ben conoscendo il suo amato: "Dìmmi, questo prelibato cacciucco, in quale stadio lo servono?". Quella domenica, si partì prestissimo, era notte fonda. Io, poi, per l’emozione, non avevo dormito affatto. Tutti felici. Mio padre, fremeva al volante del suo macchinone, preoccupato soltanto del mio eventuale, temutissimo, mal d’auto: "Ho messo il tappeto impermeabile".

Pronta, la mamma, a rassicurarlo: "Tranquillo: gli ho dato la pillola". Anche lei era contenta.

Tra Santa Marinella e Civitavecchia, allora l’Aurelia era la via obbligata, Righetto prende a esternare ad alta voce i suoi pensieri: "Certo, l’assenza di Fulvio si farà sentire, ma contro Guaita e Scopelli questo Livorno

lo vedo brutto... Ma, dico io, Fulvio doveva proprio andare a tamponare la macchina di Mussolini? Da quel giorno, povero Bernardini, non ha avuto più pace... la polizia, i finanzieri...Comunque".

Nei pressi dell’Accademia Navale, tra il mare e l’Ardenza, arrivammo talmente presto che ancora erano pochi tifosi in giro. Uno di questi, però, fu sollecito a gridarci dietro: "Romani, bucaioli!", che, appresi anni dopo, non è esattamente un complimento. Incassato l’epiteto, mio padre disse alla mamma: "A scanso di brutte

sorprese, sai che faccio, Nine’?"
. "No. Dìmmi: che fai?""Faccio che questa, la macchina, la rimetto in garage. Ne conosco uno alla Venezia, lontano dal campo...". Fece una pausa, accarezzò il cruscotto, col moto di che vuol togliere un’ombra di polvere, e concluse: "Sai con questa targa, scappa fuori un matto e me la sfregia. Eh, no...eh, no".

Dalla Venezia, cuore della vecchia Livorno all’Ardenza, stadio che all’epoca si chiamava ’Edda Ciano’, non sono proprio due passi. Ci volle il tassì: Righetto non battè ciglio. Solo mia madre, all’uscita dalla rimessa, aveva mormorato: "Quel custode, ha una faccia...". Ma era finita lì. Sul campo, quella contro gli amaranto fu una Roma irriconoscibile. Gli argentini, che forse già pensavano alla fuga per tema della chiamata alle armi (mio padre disse: "Sai, Scopelli, è bravo, ma non ha un cuor di leone. Quanto a Guaita...".), non beccarono palla.

Finì 1-1, con un golletto di Tomasi alla fine, che salvò la Lupa dal disonore. Il papà, naturalmente, era nero come la pece. Stanca e sfiduciata mia madre, io tacevo, annichilito, a testa bassa. Pensavo: "E se adesso, in macchina, a stomaco ormai vuoto, mi prende la nausea? Dio mio, chi lo sente?". Invece, di lì a poco, lo dovetti sentire, il genitore. Era sgomento e affranto alla vista della sua bella macchinona, ridotta a rottame. "Ma che è successo, che è successo...", andava gridando il povero Righetto, fulminato in uno dei suoi grandi affetti.

Agitava in aria le mani, senza saper dove riporle, dinanzi a quello spettacolo. Mentre il maresciallo sommariamente, spiegava: "Sa, frange di tifosi sono arrivati fin qui e...capita, sa...che vuol farci? Sì, lei sporga denuncia...eppoi, ha l’assicurazione... noi, dal canto nostro, abbiamo dei fermati. Insomma, vedrà...". Quel che mio padre vedeva, che noi tutti, quella triste domenica, vedemmo era un disastro, una catastrofe familiare. Alla stazione, aspettando il treno per il ritorno, mio padre provò a ritrovare la calma,

dicendosi: "Avessimo vinto, almeno". Quel campionato finì di lì a poco, ai primi di giugno, con la Roma al quarto posto. Renato Sacerdoti, per via della campagna anti ebraica già incominciata, si dimise da presidente. Anche per quello, Righetto fu molto triste. Non arrivò a consolarlo neppure la notizia che il Livorno era finito penultimo, in Serie B.