IL ROMANISTA (M. IZZI) - Il rumore del palo colpito dal tiro di Riquelme, quel 12 luglio 2007, deve essere stato tra i più belli mai sentiti da Doni. Il suo Brasile era in vantaggio (grazie ad un gol di Julio Baptista) sullArgentina per 1-0 nella finale di Coppa America quando il fuoriclasse della celeste scaricò tutta la sua rabbia su quel fendente che Alexander Marangao Doni non riuscì neanche a vedere.
In realtà la storia della Roma ha più volte dimostrato come il vero segreto di un portiere siano la forza psicologica, quellequilibrio interiore che permette di governare la tensione, ma anche e soprattutto un fattore esterno, la fiducia dellambiente. E per ambiente intendiamo compagni, tecnico e tifosi. In passato grandissimi portieri giallo-rossi hanno concluso il proprio ciclo nella capitale non certo per limiti tecnici, quanto per il venir meno di questa indispensabile apertura di credito. Emblematico il caso Paolo Conti, passato in pochi mesi dallessere lerede in azzurro del futuro Campione del Mondo Dino Zoff, ad atleta bruciato. La discesa repentina del baffo iniziò il 7 ottobre 1979, con un brutto 3-0 subito a Napoli che aveva indispettito non poco i tifosi. La domenica seguente allOlimpico il patatrac. La Roma passa in vantaggio sul finire del primo tempo ma Casarin prima di mandare negli spogliatoi le squadre convalida un gol di Claudio Sala assolutamente farsesco, non rilevando il clamoroso fallo di mani con cui il poeta del gol si era aggiustato la palla. Gli animi si scaldano e qualcuno mugugna per un intervento poco sicuro del numero uno giallo-rosso, Conti a questo punto risponde con un applauso ironico. LOlimpico reagisce con un uragano di fischi. Per lex numero uno è la fine. La domenica seguente a Udine Liedholm farà debuttare Tancredi mentre il mensile Giallorossi dedicherà allex titolare una copertina che sa depitaffio, ritraendo listante dellapplauso suicida . Quando il 24 febbraio 1980 il tecnico svedese tornerà a schierare Conti allOlimpico (Roma Udinese 1-1), vi saranno ancora soddisfazioni per lui (un derby vinto da titolare ad esempio), ma il feeling con il pubblico si era spezzato per sempre. Logorato psicologicamente, crollò nella prima metà dellaprile del 1980. Il dramma si consumò definitivamente il 13 aprile contro la Juventus. Su un traversone, dopo appena 2 di gioco una sua incertezza riuscì a mandare in rete Claudio Gentile. I 70.000 presenti videro Francesco Rocca imbestialito urlare viso a viso con il suo portiere che rispondeva con la stessa veemenza.
Da un numero uno sfiduciato dal pubblico ad un numero uno sfiduciato dallallenatore, ovvero Fabio Cudicini. Il destino di uno dei più grandi portieri della storia della Roma si compie già durante il ritiro della stagione 65/66. Il Ragno Nero soffre di forti dolori alla schiena che ancora oggi Giorgio Rossi può testimoniare e confermare. Il tecnico Oronzo Pugliese è costretto a spedire in campo Matteucci, ma non crede ai problemi fisici del suo titolare. Inizia così a pressarlo per tornare in campo: «Devi resistere e sacrificarti, così andrai in Paradiso». Cudicini cede e il 19 settembre rientra tra i pali nella vittoriosa trasferta di Genova. La via che ha imboccato, però, non è quella del Paradiso, ma di un lento martirio che lo prostra mentalmente e fisicamente, sino alla fatidica data del 1 maggio 1966. La Roma perde allOlimpico contro la Fiorentina, sconfitta brutta, agevolata da un errore di Fabio che rientrando negli spogliatoi, tormentato dai dolori alla schiena ha un gesto di stizza, si sfila la maglia, la getta su una panca e urla in faccia a Pugliese che non avrebbe più giocato sino a quando non fosse guarito del tutto. Pugliese si metterà a rapporto da Franco Evangelisti inventando una panzana colossale: «Cudicini negli spogliatoi ha calpestato la maglia della Roma e ha detto che non giocherà più per me. Dunque o io o lui». Il presidente invece di rispedire lallenatore a Turi si disfa di Cudicini che, dopo aver accarezzato lidea di smettere di giocare, si accasa al Brescia e in seguito al Milan, dove vincerà tutto.
Di volta in volta in questi ottantatre anni, Masetti, Panetti Ginulfi, Tancredi, Cervone, Antonioli hanno subito questo destino. Quasi mai un portiere defenestrato è riuscito a riconquistare la fiducia perduta, forse, lunico ad esserci realmente riuscito è stato Guido Masetti. Ma Guido aveva dalla sua parte una comunicativa e un rapporto con i tifosi che Doni non sembra avere. Quando il 26 gennaio 1941 rientrò in prima squadra contro il Bologna macchiandosi di un errore che poteva costare carissimo alla Lupa impelagata nella lotta per non retrocedere, il futuro capitano dello scudetto alzò il braccio verso i popolari per chiedere scusa. La gente applaudì a scena aperta con generosità, il rispetto e lamore si dimostrarono una muraglia fatta di ricordi, passione, affetto capace di reggere ad ogni urto.