Bernardini, Ginulfi e Giannini. Alla Juve c’è chi ha detto no

21/01/2010 alle 10:14.

IL ROMANISTA (M. IZZI) - Sul clamoroso no di Pietro Paolo Virdis alla Juventus nell’estate del 1977 si è scritto tanto, forse troppo. Sappiamo delle giornate trascorse da Giampiero Boniperti all’Hotel Moresco di Santa Teresa di Gallura, delle telefonate dell’avvocato Agnelli che lo tiravano giù dal letto all’alba mentre il giornalista Marco Degl’Innocenti, dalla stanza di fronte cercava di carpire brandelli di conversazione. Si capisce il perché sia una storia che affascina. Funziona il tema del ragazzo sardo, tutto cuore e famiglia che dice non alla grande Juventus. A rincarare il vigore delle fanfare c’è anche la sapiente regia di Boniperti e delle sue dichiarazioni: «Virdis mi ha spiazzato, sia perché fino al giorno del suo no aveva pubblicamente espresso il gradimento per il trasferimento in bianconero, sia perché non era mai successo che si ..



Meno comodo parlare di altri “no” arrivati a Madama, dei “no” più solidi e convinti, poco adatti, evidentemente, a far letteratura. Alberto Ginulfi, ad esempio, non vive su un’isola, però da ragazzo si alzava alle quattro per aiutare la zia al banco di pesce del mercato di piazza Vittorio. La sua è una storia d’ascesa e passione che evidentemente fa poesia solo in riva al Tevere. L’esordio, da giovanissimo, nell’ottobre del 1962, poi tantissima gavetta alle spalle di fuoriclasse come Fabio Cudicini. Poi, dopo la vittoria in Coppa Italia e la bella avventura in Coppa delle Coppe, all’inizio degli anni 70, la che ha appena messo le mani su Capello, Spinosi e Landini, pensa di portarlo a Torino. Lui, consultato sulla faccenda dirà semplicemente: “No, io sono tifoso della Roma, sto bene dove sto».

E’ un no che non ha riempito le pagine di giornale, pronunciato da un atleta che ha onorato sempre e comunque la maglia numero uno della Roma. Sembra però che i “no” che dal Tevere salgono verso Torino abbiano una vocazione clandestina. Non se ne parla, e i  particolari sono avvolti in una penombra difficile da penetrare.

Eppure qualcosa, ogni tanto, si riesce a carpire, come nel caso di Peppe Giannini. “Il Principe” rifilò il primo gol in serie A proprio alla , il 28 ottobre 1984. A comunicargli che sarebbe sceso in campo era stato Paolo Roberto Falcao, sull’aereo che portava a  destinazione la squadra. Si dice che quel giorno Agnelli, oltre ad infuriarsi con il suo ospite Enrico Vanzina (colpevole di aver esultato con troppa enfasi al pareggio di Giannini, in piena tribuna d’onore, verrà  abbandonato, a piedi, allo stadio, per punizione) s’innamorò delle geometrie di quel giovanotto in maglia giallo-rossa. Fu così che l’avvocato, quattro anni più tardi si farà vivo con Dino Viola mettendogli tra le mani un assegno in bianco per acquistarlo. I mondiali del 1990 sono alle porte, e con essi i lavori che di fatto priveranno per due anni la Roma dei suoi incassi, unica fonte di reddito e sopravvivenza per un club in quegli anni. Viola convoca Giannini a Trigoria e gli comunica l’offerta. Il discorso del numero uno della Roma è chiarissimo: «Che vogliamo fare? Io non ho nessuna intenzione di cederti, tu, anche se mi fai arrabbiare, rappresenti la romanità, la continuità con la Roma della mia gioventù, di e Attilio Ferraris IV. Io non ti cedo». Era altrettanto chiaro che se Viola rinunciava al classico “valigione” di danaro, Giannini doveva fare la sua parte: «Quando c’era il rinnovo del contratto non me la sentivo di andare oltre certe richieste… sapevo a cosa aveva rinunciato l’ingegnere e io decisi di fare la mia parte. Ho rinunciato a tante cose, è vero, ma non me ne sono mai pentito».

Il fascino della tende a sbiadire dietro alla semplicità straordinaria di questi gesti… La

finisce per ridiventare solamente una squadra nata su una panchina di Corso Umberto e chi ha voglia di sedersi su una panchina a Torino? Certamente non ne aveva voglia quando, all’apice della sua popolarità di tecnico,
Umberto Agnelli lo contattò per proporgli di vestirsi di bianco-nero. Fulvio si faceva negare, spediva all’apparecchio sua moglie, sperando fosse lei a trovare un pretesto qualsiasi, poi, finalmente si decise a liquidare la cosa personalmente: «Cosa vuole, la è già così forte che se venissi anche io ad allenarla non ci sarebbe più nessuna chance per le altre squadre. Lasciamo andare». In verità lasciarono andare tutti, Ginulfi, Giannini, Bernardini, tutti senza rimpianti. Guidati da una scelta di cuore e dal quel briciolo di pazzia che fece dire un giorno a Gianfranco Zigoni: «Non ho nessun rimpianto, a parte quello di aver accettato di tagliarmi i capelli quando ero alla . Ma ero troppo giovane». Poi, quando

è cresciuto, è passato alla Roma.