IL ROMANISTA (M. IZZI) - Ogni anno ha la sua musica e in quel maggio del 1980 la musica che stava arrivando era quella del nuovo album di John Lennon: Just like starting over (Come ricominciare da capo). Una delle strofe diceva: E tempo di spiegare le nostre ali e volare. Non lasciamo andare via un altro giorno. Chissà se Agostino Di Bartolomei quella canzone lha mai fischiettata. Nel gennaio di quellanno, probabilmente, anche lui sentiva che il tempo di spiegare le ali e volare fosse finalmente arrivato. Aveva ansia di crescere, di voltare pagina...
Nel maggio del 1979, mentre i suoi compagni e lintera Roma giallo-rossa festeggiavano il pareggio contro lAtalanta che valeva la salvezza, era rientrato negli spogliatoi infuriato: «Cosa festeggiamo? Questa gente merita altre soddisfazioni. Di cosa siamo contenti?». Sognava i grandi spazi Ago, un suo pallino era quello di realizzare un viaggio in Canada, esplorare quel paese immenso, protetto dallanonimato, senza firmare autografi, senza pensare a nulla. Aveva lassoluta necessità di staccare la spina, perché quando Agostino era inserito diventava corrente pura. Tutto quello che riguardava la Roma lo riguardava da vicino, dalle magliette che qualcuno lasciava sul pavimento degli spogliatoi (mentre lui piegava anche i calzini), al nuovo compagno che cercava casa (ti aiuto io a trovarne una vicino Trigoria).
Era nato per essere un leader, per dare lesempio e Liedholm se nera accorto da un pezzo, sin dalla finale del campionato primavera del 1974. La Roma giocò la gara decisiva a La Spezia, contro il Milan. Di Bartolomei gioca con il numero 8 e la fascia di capitano al braccio. Si vince per 4-0, poi la squadra si trasferisce in un ristorante per il festeggiamento ufficiale. «Alla fine della cena ricordava Liedholm Agostino si alzò e fece un discorso per ringraziare tutti i compagni, il presidente Anzalone e tutti noi che eravamo andati a vedere la finale. Parlò con grande disinvoltura, mostrando unesperienza e una maturità non comuni per un ragazzo di appena diciannove anni. Io ascoltai con attenzione, e dentro di me pensai: Questo è un vero capitano».
Il 13 gennaio 1980, la Roma deve rendere visita al Milan. Santarini non scende in campo e Liedholm, da sempre attento ai segni del destino, vede loccasione per battezzare Di Bartolomei capitano della Roma in quello che era stato per anni il suo stadio. E una coincidenza troppo grande per non essere studiata, cercata, voluta. Liedholm vedeva in Di Bartolomei una delle sue incarnazioni, vedeva in lui il capitano perfetto. Trenta anni e un giorno
tanto è passato da quel 13 gennaio, da quel pezzo di stoffa che si posava sul braccio del capitano più sacro alla memoria dei tifosi romanisti. Tutto il passato tornava in quella gara incastrandosi in
un gioco di specchi perfetto, miracoloso. Di Bartolomei diventa capitano della Roma contro il Milan, la squadra a cui si era negato nel 1968, quando losservatore Passalacqua, aveva cercato di tesserarlo per la squadra rossonera. Ago rifiutò, come aveva rifiutato la Lazio, rifiutò infischiandosene dei soldi e facendo incazzare di brutto un mucchio di persone che ai soldi pensavano e come: «Quelli della mia società, lOMI ci rimasero male, volevano cedermi a tutti i costi. Un inferno, non avevo ancora tredici anni e mi sentivo un fenomeno da baraccone. Quando ripresi a giocare scoprii che ormai li avevo tutti contro».
Quel MilanRoma viene arbitrato da Bergamo, che, ironia della sorte annulla al Milan due reti per fuorigioco.
Il solerte ingranaggio che implacabilmente lanno dopo avrebbe infranto il sogno scudetto della Lupa
annullando la rete di Ramon Turone, rigettava in gola lurlo di San Siro, roba da non credere. Del resto Agostino non poteva perdere quella gara, doveva spiegare le ali e volare e dove lo avrebbe portato quel volo,
anche se non poteva saperlo, lo aveva davanti agli occhi. Nelle file del Milan, con lo scudetto sulle maglie giocava Aldo Maldera, destinato, tre anni più tardi a mostrare un altro tricolore sul petto, quello di cui Agostino
sarebbe diventato gran timoniere. Di Bartolomei, dunque che a San Siro si veste dei gradi di capitano e vede
il suo scudetto, come in un meraviglioso sogno premonitore, una profezia fatta di segni, tessuto e stoffa.
A distanza di trentanni, capita ormai, sempre più spesso, di raccontare la sua storia, la sua immensa classe
a giovani romanisti che non hanno vissuto Di Bartolomei sul campo. Ci limiteremo a dire che Ago è stato
il capitano di unidea, di un modo dintendere il calcio e la vita. Per questo ancora oggi il suo ricordo, la sua immagine, la sua potenza di gioco (e di tiro), trasmettono emozione, vitalità, e in ultima analisi lo stile Roma nella sua incarnazione più pura, meno disposta a scendere a compromessi.
Mi manca, tra le tante cose, anche quel suo modo di parlare a mezza bocca, quasi trascinato, che sapeva essere a seconda dei casi discreto e puntiglioso, ironico e pacato. Tutta una generazione di romanisti, trenta anni (e un giorno) fa trovava il suo capitano, anzi meglio, si rispecchiava e si riconosceva nel suo capitano... era il 1980, cantavamo con John Lennon, vestivamo le maglie a ghiacciolo e sognavamo di essere Agostino.