Il derby dell'ultima Befana

02/12/2009 alle 10:02.

IL ROMANISTA (F. STINCHELLI) - Avevo da poco compiuto gli undici anni, quando nella mia vita si verificarono due eventi importanti: smisi il grembiule azzurro delle elementari (eh, già, ero ormai un ginnasiale del ‘Visconti’ al Collegio Romano), e gli odiati calzoncini corti, per accedere finalmente ai pantaloni alla zuava. Non dico che fosse il raggiungimento della maturità, ma poco ci mancava, visto che quel 6 gennaio, la nonna Corinna, sovrana in casa, aveva solennemente dichiarato:” Basta con la Befana! Sappi, ma tanto già lo sai, che i regali siamo noi a fàrteli:i nonni, tuo padre e tua madre…”. Non che mi svelasse alcunché, ma denti e lingua mi si legarono come se avessi mangiato un cachì allapposo. ..

‘zozzoni’, come li chiamava la plebe lupina, non dovevano esser mai citati per primi).



Ma quel 15 gennaio, si trattava di un vero Roma-Lazio, da giocarsi a Testaccio, probabilmente per l’ultima

volta, mentre per me sarebbe stata la prima, in calzoni quasi lunghi, al fianco di mio padre. Quando fummo in via Nicola Zabaglia, salutato Zì Checco, alla porta, papà mi disse:”Che fai, tremi? Non scherziamo. Questi, con

noi, non vincono mai”. Ed era vero, perché, nei precedenti dodici anni di vita della Lupa, non s’era mai perso con la Lazio. Entrai, quindi, abbastanza rinfrancato. Ma la buona novella che tanto attendevo non ci fu: agli ordini di Guido Ara, scesero in campo tutti gl’idoli di casa nostra, Masetti, Bernardini, Fusco, più i ‘nuovi’,

Bonomi e Coscia, ma non il figliuol prodigo FerrarisIV, che io chiamavo ‘zio Attilio’. Mio padre si accese una sigaretta e commentò:”Be’, sai, ormai andiamo per i trentacinque, gli ci vorrà un po’ per tornare in piena

forma. Non ti preoccupare, c’è Fulvio, e lui basta e avanza”. Quella stramaledetta domenica, invece, faceva un freddo tremendo e le tavole ghiacciate del vecchio Testaccio scricchiolava- A no, gemevano. Forse, piangevano. Come me, all’uscita.



Sì, perché era andato tutto per storto. Fulvio non era bastato e Guido, in porta, l’immenso Masetti, aveva preso da Zacconi un gol ridicolo, per non parlare di quello di Busani. Due a zero per la Lazio, era finita. Da non credere. A me, che continuavo a frignare, mio padre tese il suo candido fazzoletto e disse: ”Piangere non serve a niente. Abbiamo beccato, sai, prima o poi, doveva accadere…”. Ci fu una lunga pausa, fino alla fermata di via

Marmorata, poi, una volta sul tram, papà concluse: ”Com’è la vita. Ti vedo abbastanza grandino per venire con me al campo, voglio farti un regalo e scelgo un Roma-Lazio in apparenza facile facile e guarda che ti va a succedere…il finimondo”. Sì tacque, poi, per tutto il resto della corsa.



La sentenza, amara, venne nell’ultimo tratto, a piedi: ”Non voglio nemmeno pensare che sia stata colpa tua. Certo, è stato per te un pessimo esordio. Sai che ti dico? Non mi sembri assistito da una gran fortuna, almeno in queste cose. Ragion per cui, dà retta a papà tuo, quando c’è Roma-Lazio, stàttene a casa, che è meglio”. Poi, quasi a consolarmi, soggiunse: ”Evita, èvita… tanto che sono? Due sole partite…”. Tale fu l’interdetto paterno che non avrei più dimenticato, che ha condizionato la mia lunga vita di tifoso romanista condannato à perpétuité a disertare il Derby. Quando mio padre emise quella sentenza, si vivevano tempi difficili: la guerra mondiale era prossima con l’immane connessa tragedia. Mentre, per noi romanisti, andava prendendo forma la squadra che ci avrebbe regalato il primo scudetto. Ma noi, al momento ignari, stavamo

lì a contristarci per quella ‘orribile delusione’ dello zero a due patito dalla Lazietta. Molti anni dopo, quando mi ero fatto uomo, col papà si tornò a parlare di quel mio infelice esordio. E, insieme, ne ridemmo anche, senza

per altro che il genitore s’inducesse mai a revocare l’interdetto. Anzi, continuava a ripetermi: ”Tu, comunque, èvita…”. E io, fermo, continuai a evitare. Fino a un certo giorno,,, Esattamente, fino al sabato precedente il Roma- Lazio all’Olimpico del 26 febbraio 1984. Ormai, agli ordini di Gianni Melidoni, ero diventato il columnist giallorosso di punta del Messaggero.

Disinvolto, quel grande mi fa:”Per domani è previsto un tuo corsivo dallo stadio”. Provo a spiegare i motivi che m’impediscono di andare allo stadio:”Sai, Gianni, non vorrei portare jella alla Roma…”. “Ma fàmmi il piacere, sono stronzate”. “Forse, per te, ma per me…”. Non ci fu verso, s’impuntò, ci mise di mezzo perfino Dino Viola, fui costretto ad arrendermi. Un passo avanti, due indietro raggiunsi l’Olimpico e m’installai, con la morte nel cuore, al mio posto in tribuna-stampa. Chi ha buona memoria delle vicende giallorosse conosce il seguito della storia. Primo tempo: la grande Roma con lo scudetto sul petto, la Roma di Falcao, Di Bartolomei, Cerezo, Pruzzo e Nela, viene fulminata da due gol di Vincenzo D’Amico. Io vedo le streghe e la poltrona mi

brucia sotto il sedere. Fuggo dallo stadio prima che le squadre tornino in campo. E rientro in redazione,

dove apprendo che, in mia assenza, la Lupa, grazie ad Agostino e a Cerezo, è riuscita a pareggiare 2-2.



Che si vuole di più? Va da sé che da quel giorno, e son passati cinque lustri, non ho più osato sfidare

l’interdetto paterno. Questa storia l’avrò raccontata, in decine di occasioni, al colto e all’inclita. Mi vedo costretto qui, sul "Romanista", a ripeterla. A ripeterla, soprattutto, a beneficio di quanti, in buona e cattiva fede,

vanno con pertinace insistenza da alcuni giorni a domandarmi:”Ma come fa a dirsi romanista, lei che si è spinto a dire che vorrebbe la Roma in B pur di trarla dalla morta gora in cui le vicende societarie la condannano a vegetare, forse à perpètuitè?”.

Sono costretto a ripetermi: la penso così e nemmeno il diavolo in persona riuscirà a convincermi del contrario. Se tanto vi piace la Rometta senza presente e senza futuro (poco importa arrivare quarti o quindicesimi), che il Matronèo pacelliano vi promette, che buon pro vi faccia. Io aspiro a ben altro. Comunque, tranquilli, al

Derby non ci sarò. Nemmeno stavolta.