
IL ROMANISTA (G. DI PIAZZA) - Notte dorgoglio e di fatica, novanta minuti che ci servono per ricordare, innanzi tutto a noi stessi, chi eravamo, chi potremmo essere, chi avremmo il dovere di diventare. Le forze in campo erano lì, su quel tappeto limaccioso chiamato San Siro, in tutta la loro sproporzione: loro minacciavano la nostra area con Etoo-Milito-Balotelli e noi alla fine li facevamo tremare con Riccardo Faty, deliziosa ala di basket, anima gentile di cui Ranieri sè invaghito, costato più o meno una miseria.
Notte dorgoglio e di Faty. Ed è da questo San Siro scivoloso che dobbiamo ripartire, dalla rabbia di Mirko Vucinic che inseguiva tutti, compreso se stesso - il primo da riprendere - per dimostrare al mondo che siamo vivi, che lui è vivo, che sa ancora fare gol, e che gol! Pensate a Lucio, maschera feroce dello strapotere interista: sta cercando ancora in cielo quellufo che gli è volato sopra, ha colpito la palla, riducendo lui e il suo collega verdeoro Julio Cesar a spettatori di un evento sovrannaturale, di una parabola forse biblica, la parabola assurda della palla, in un San Siro che si riduce in quellistante al solo semplice sette, piccola area logica dove la palla va e dove noi talvolta rinasciamo.
Oggi ripenseremo alle occasioni che abbiamo avuto per precipitare lInter in un incubo. Peccato. Non labbiamo fatto. Loro ne hanno avute forse di più. Non importa. Conta invece dirci che Ménez ha carattere, che Riise è come una consolare senza, non sarebbe Roma che Motta è uno dei migliori ragazzi della sua generazione, che Okaka per fermarlo ci vorrebbe la Stradale, che Perrotta e Pizzarro hanno energie da Primavera... E giornata di consolazione, di orgoglio, fatica e consolazione. E dire che a Milano pioveva e faceva freddo.