Francesco sta al calcio come Albertone al cinema

25/11/2009 alle 13:50.

IL ROMANISTA (P. SAPEGNO) - Non so come si faccia a nascere come lui. Ci sono cose che sono rimaste a segnare la nostra passione, un pallonetto a Sebastiano Rossi di un Roma-Milan 3 a 0, un cucchiaio a Julio Cesar nel freddo di San Siro, un gol a Buffon nel 2002, Roma Juventus 2 a 2, e altre reti così, ma non è questo. Ci sono i suoi numeri, 187 gol in serie A, all’ottavo posto di sempre, e nove in questo campionato con appena otto partite giocate, o 27 nell’anno che deve ancora finire avendo disputato solo 29 incontri, quasi un centro ogni novanta minuti...



Eppure non basta. è il più grande calciatore italiano del dopoguerra (e probabilmente solo perché prima eravamo tutti molto lontani dal mondo per fare delle classifiche), «è l’unico fuoriclasse italiano», come dice Zeman, l’unico capace di cambiare completamente una squadra e i suoi destini, come Kakà o Cristiano Ronaldo. Ma quelli come noi non l’hanno amato solo per questo. Che Francesco sarebbe diventato quello che è, lo doveva sapere lui per primo, visto che a nove mesi già camminava e prendeva a calci un pallone di plastica, che credevano d’avergli regalato solo perché avesse qualcosa da fare.

Lui se lo teneva sempre addosso, anche quando andava a dormire. Era pure preciso già allora: mamma Fiorella ha sempre ripetuto che «a casa non ha mai rotto niente». Il talento l’ha scoperto subito. Era magro come un chiodo, piccolo e basso, un biondino che giocava con quelli più grandi di lui da quando

aveva 5 anni e segnava ogni volta, sulla spiaggia, nella Fortitudo, o con la maglia della Smit Trastevere.

Lui non è diventato grande. Lo era già, anche quand’era uno scricciolo un po’ sghembo in mezzo a ragazzotti di borgata.



Però, davvero, quelli come noi non l’hanno amato solo per questo. Se si può fare un paragone persino banale, sta al calcio come Alberto Sordi sta al cinema. Ed è il genio che c’è in lui che ci ha folgorato,


quel suo modo di far le cose difficili come se giocasse a tresette, l’ironia di certe sue giocate e l’arte sfottente di renderle decisive, o le sberle che tira senza sudore, come il terzo gol al Bari, nell’area affollata, da posizione laterale: vediamo di mettere a posto ’sto casino. Pochi calciatori al mondo sanno essere se stessi in un campo di gioco come lui. A noi è il suo modo di correre che ci fa impazzire, così romano, come se non dovesse mai sprecare una goccia, ma così geniale, perché ha in sé la capacità di capire prima degli

altri dove finisce il pallone.



E’ il suo stile, mai violento, mai cattivo, eppure forte, com’è diventato lui, fisicamente intendo, risorgendo

sempre, da un incidente all’altro. Anche per questo, è la Roma, come Albertone era la romanità nel


cinema. Lui nella casa giallorossa ci mise piede per la prima volta nel 1989, a tredici anni. Arrivava dalla Lodigiani, e l’indimenticato Dino Viola aveva dovuto fare i salti mortali per riuscire a prenderlo: su di lui aveva già messo gli occhi la Lazio, e sarebbe stata una sventura - lasciatecelo dire - se fosse andata così. E mica solo perché forse avremmo avuto uno scudetto e mezzo di meno (quello di due anni fa all’Inter, con l’ultimo uno a uno di Catania, è stato regalato a Moratti dal dopo Moggiopoli e dai suoi arbitri), ma proprio perché non avremmo potuto amare quello che amiamo di lui sapendo che in fondo anche noi siamo una piccola parte del

suo destino. Dall’esordio in serie A, il 28 marzo 1993, a 16 anni appena, dai giorni lontani di Vujadin Boskov sulla panchina giallorossa, all’ultima domenica contro il Bari, tutta la Roma che è passata è quella che noi portiamo addosso, come lui faceva con il suo pallone di plastica quando aveva solo nove mesi. La Roma del

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