Quando la storia passa di mano

12/10/2009 alle 09:50.

IL ROMANISTA (T. CAGNUCCI) - Dopo Nils Liedholm e Paulo Roberto Falçao, Luciano Spalletti è stato sicuramente il più grande allenatore della Roma. Il voto è 10, la lode gliel’hanno tolta gli arbitri a Catania (e una nottata assurda di Roma in un posto che si chiamava Teatro dei Sogni, e che probabilmente non esiste). Spalletti è alla storia, Claudio Ranieri comincia a farla. Incomparabili: così testaccino il toscano, un

SPALLETTI

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Dialetticamente Spalletti è stato inversamente proporzionale al suo calcio spaziale: tanti vezzeggiativi e diminutivi, senza tirare mai, una melina estenuante, sovrapposizioni senza arrivare alla linea di fondo: squadra corta e conferenze lunghissime. Per paura di andare in fuorigioco si teneva sempre la palla, quel "ticchete tocchete" per alludere o – geniale – arrivare alla meta allusione (tipico: "ah lei vuole alludere che..."). Quei discorsi prolissi erano una cantilena portoghese che non aveva niente a che fare col suo calcio di un Dio del tremila, ma un’eco sintattica del tipico rumore della Toscana: il vociare. Il sottofondo continuo dei ragazzini nel parchetto comunale di Poggibonsi. Un pomeriggio infinito. Non voleva scoprirsi perché come tutti i più

grandi conservava un margine di insicurezza e paura nei confronti della stampa. In questo sicuramente beniano cercava non la libertà di stampa, ma dalla stampa. E allora ecco i "comportamenti" e "gli  atteggiamenti giusti" per non essere messo in croce. Della sua anima più verace boccaccesca e contadina

(la stessa che lo faceva innamorare di giocatori come Iaquinta e Lima) gli è uscito fuori solo quel "raspare" col quale ha iniziato a costruire una tra le Roma più belle di sempre. L’uomo che miracolosamente ha portato

la normalità, dal punto di vista della comunicazione è stato un bluff: è stato normale. GESTIONE DEL GRUPPO 8,75

l voto è 10 per i primi tre anni, 5 per l’ultimo. E’ prima di una partita contro il Basilea nella vecchia Coppa Uefa che è nata la Roma di Spalletti. Lì, non altrove. Nè a Genova, nel giorno del , né nelle vigilie dei record. C’è tanto Spalletti: la società ordinò il ritiro perché i risultati facevano schifo, lui prese per la prima (e unica) volta posizione dicendo di non essere d’accordo: il giorno dopo, dopo il gol di tutta la squadra andò ad abbracciarsi l’allenatore, prendendosi a pizze. Lì nacque tutto, col metodo della fiducia all’olandese. Già nel primo Castelrotto I Spalletti aveva preparato il progetto: dava del tu a chi sbagliava, del lei a chi faceva bene. Appelli agli assenti. Nome o cognome, fino ad arrivare ai soprannomi, ai rapporti stretti, fino a perderli. Spalletti è stato il creatore di una squadra troppo bella per essere guidata ulteriormente. A un certo punto ha lasciato fare, alla fine troppo. A volte, sprofondato in panchina aveva la faccia di Jeck Skeletron del Nightmare Before Christmas di Tim Burton. Oppure un ragazzino che ha appena visto passare il trenino: uno sguardo dark immerso nella nostalgia


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l confronto Zeman era la camicia bruna del sindacalismo estremo, Buttiglione un anarchico alla ricerca forsennata della palingenesi. Per certi versi nessun allenatore è stato così aziendalista come Luciano  Spalletti. D’altronde uno che si dimette perché altrimenti la società non si sarebbe potuta permettere nemmeno Oronzo Canà, come definirlo? In cinque stagioni gli hanno comprato soltanto un giocatore, Pizarro,

e grazie a una telefonatina Skype di . Nel primo mitico Castelrotto, si portò dietro Bruno Conti in conferenza stampa per dire a tutti: «Lui è il dirigente più grande». Tre anni più tardi toglievano ai giocatori le


A multe che lui decideva. Il 30 agosto del primo anno quasi rovesciò la scrivania quando seppe che Mancini stava a Milano per andare a Torino. I raccordi con lo staff medico non sono stati mai raccordati, la questione

dei campi l’ha sollevata lui: ma tutto in silenzio, tutto senza far sapere niente. L’immagine è quella soffocata e censurata d’inizio giugno, quando dopo l’incontro-non incontro con Rosella voleva andare dai giornalisti per fare chiarezza, ma fu invitato a uscire da dietro. L’ha fatto, poi quando s’è reso completamente conto di tutto, lo ha rifatto dal portone principale dicendo finalmente quello che pensava da un anno: "dimissioni".

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Tre coppe, due quarti da sogno e un sogno sfiorato per un’ora sola che rivorrei. Giocando come in paradiso.

Se questa non è efficacia, non è nient’altro. Spalletti è stato e ha fatto tanto per la Roma, a tratti tantissimo. La sua storia è stata sotto il segno della predestinazione sin dall’inizio, una scintilla e via. Bastava vederlo a quel tempo. In questo è stato facilitato. La Roma che veniva dall’anno dei mille allenatori era una Roma stanca, sfibrata. Così era la sua gente. Quando è arrivato, Spalletti ha trovato il deserto. Lui è stato il Mago che ci ha piantato i fiori, ma le aspettative, le speranze erano tutte in un senso, il vento gli soffiava dietro. I primi giorni di allenamento i tifosi cantavano in continuazione che «chi sta contro Spalletti cià la contro». Spalletti è stato il più bravo ma ha potuto fare il miglior giro di ricognizione possibile. Ha avuto tutte le componenti a favore: nelle prime cinque partite di campionato aveva fatto 8 punti (che sarebbero rimasti tali anche dopo 7).


Nessuno lo avrebbe mai potuto cacciare, ma dopo Empoli (16 ottobre, Natale, compleanno di Falçao)  qualcuno cominciò a parlare di dimissioni. «Dimissioni? Io non mi sono mai dimesso dopo una sconfitta», disse prima del Basilea. Sembrava Ranieri. Dopo Basilea.

RANIERI

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celleria del fronzolo, da risultare all’inizio persino noioso  tanto arriva all’osso. Claudio Ranieri non dà resti. Le sue parole non sono parole ma sono materia viva, sono sia carne, sia pesce e si sostanziano di una  semantica culinaria. Il giorno della presentazione ha accantonato lo "champagne" spallettiano («io me lo  bevo, semmai») e a  chi gli chiedeva un motto ha risposto con un capolavoro: «Io non ne ho, sono pane al pane e vino al vino». Eccolo lo slogan senza slogan, il "no logo" che è già una griffe sulle labbra strette di Ranieri. Da lì escono solo verità sostanziali, il più possibile fisiche: «Io sono un martello» oppure «anche i sassi sanno come gioca ». Il miracolo – a parte la gaffe nel giorno della presentazione di Parma - è che


con lui il significante coincide quasi sempre col significato, la forma col contenuto. E’ un De Saussure testaccino. E’ con le sue "non parole" che ha svegliato la Roma, e ha ripreso a tirare sassate con la


mazzafionda caricata dalla stessa anima stradarola del suo ultimo allenatore. Dietro c’è il pensiero di chi ha iniziato dalle scarpe per arrivare alla bombetta, dal Vigor Lamezia al Chelsea, dal profondo Sud (salendo per la Puteolana) fino alla   soltanto per tornare dove era partito. L’Odissea di Testaccio.


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E' dopo una partita contro il Basilea nella nuova Europa League che è nata la Roma di Ranieri. Lì, non a Siena. In Svizzera la Roma ha perso faccia e partita, punti e stima. Allora Ranieri ha attinto alla sua

filosofia, che è semplice e vecchia come il mondo: ha cazziato la squadra, in pubblico e in privato, anda e rianda, una bella ripassata. Probabilmente li ha pure mandati a letto senza cena. «Io ho chiesto ai giocatori di fare le cose elementari, corsa e determinazione, di giocare semplice, non sono riusciti nemmeno a fare quello». In allenamento altro che "vossignoria"! urla e E’ incitamenti chiari: «sul pallone ci dovete mettere nome e cognome». Cose antiche da scuola calcio, tesori persi nelle avanguardie pallonare, tu chiamale se vuoi motivazioni. Così come il  ritiro, ripristinato sempre e comunque. «Io faccio così». La Roma pure, lo fa così alla , 3-1, spettacolo, abbracci e gioia. Una vittoria spallettiana contro la squadra per cui fa(ceva) il tifo Spalletti. In quella gara e come è sempre, Claudio Massimo resta sempre in piedi davanti alla panchina, con quella faccia da Marco Antonio, ma in tight col suo distacco bilancino (è dello stesso segno di Liedholm e Falçao).


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Sembrava Iago, che bofonchia in a parte: «io non sono quello che sono », Ranieri quando nella conferenza

di presentazione ha detto: «Non sono un signorsì, sono un aziendalista». Sembrava un paradosso, un modo un po’ fumoso, persino mellifluo, per dimostrare disponibilità senza sembrare troppo appiattito sulle posizioni dominanti, e invece l’uomo che scaglia le parole ha rotto la finestra. «I nostri campi di allenamento sono bruttissimi. Uno fa schifo, se volete ve lo faccio vedere. Se è così meglio andare alla spiaggia di  astelfusano». Bucata la membrana, tempo due giorni ed ecco i tecnici a Trigoria con trivelle e rotoli d’erba: bucato il terreno. Ranieri è un aziendalista nel senso che lavora sulle infrastrutture: dovrebbe essere consultato per il progetto stadio, quando l’hanno fatto è stato chiaro: «Dev’essere la casa del romano, mi auguro di poterci allenare».

E’ un architetto: lavora per un ponte verso il futuro, il suo. Sentirsi Claudio Massimo anche fra cinque anni è un’ambizione che può avere solo chi ha convinzioni forti, chi si sente struttura lui stesso, partecipe, un pezzo di Roma. «Me ne sono andato  per farmi le ossa, sono tornato che sono vecchio». Per lui i 35 anni che sono

passati da quel momento, sono solo un discorso interrrotto.

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Paragonare cinque partite a quattro stagioni non ha senso, tanto più che sono grandi le stagioni di Spalletti, ma quello che ha fatto Claudio Ranieri finora è già più di tanto per un motivo: ha elaborato un lutto sportivo. Quando a inizio settembre è arrivato a Trigoria per il primo allenamento non ha trovato una squadra di calcio,

ma un gruppo di persone che avevano perso un riferimento. Anche quelli che non lo seguivano più – e non erano pochi - quando Spalletti se ne è andato sono rimasti increduli, storditi, rammaricati. C’era gente inebetita quel giorno  in campo. C’è anche chi nel salutarlo s’è commosso (ad un giocatore in particolare è successo). Si viveva la fine di un’era, di un periodo che era già archiviato come belle epoque. Suonavano i grammofoni. Spalletti aveva pure rinunciato ai soldi, s’era appena fatto santo e martire. Struggente. Bastava bisbigliare parole come "Lione", "Madrid", "Milano" e giù lacrime... Tremendo. Per Ranieri la situazione peggiore, con un compito simile a quello che si diede Riccardo III che volle corteggiare la donna appena fatta da lui stesso vedova: se si vince a Milano, tra nove mesi non è prematuro parlare di scudetto. Fate i calcoli. L’ha messa incinta la Roma il testaccino.