
IL ROMANISTA (A. GIULI) - Il ripostiglio della memoria a volte sarebbe meglio non aprirlo. Cè sempre il rischio di scovare un dettaglio trascurato che può trasformarsi in cattivo presentimento. Per esempio questo: la Roma non ha mai vinto un trofeo con un allenatore della Capitale a dirigere i giochi e a sedersi sul trono del Fato.
di scovare un dettaglio trascurato che può trasformarsi in cattivo presentimento. Per esempio questo: la Roma non ha mai vinto un trofeo con un allenatore della Capitale a dirigere i giochi e a sedersi sul trono del Fato. Passi per gli scudetti, che in fondo sono ancora pochi, propiziati dallaustro-ungarico Alfred Schaffer con I una squadra di metallurgici senza fuoriclasse (1942); dalleccelso svedese Nils Liedholm con Pruzzo e Falcao (1983); e dal senza patria, se pur friulano, Fabio Capello con un Totti superbo e il gusto di strappare il tricolore dalla maglia della Lazio (2001). Passi pure per lantica Coppa Coni del 1928, vinta quando la Roma aveva ancora il pannolino ed era allenata dal britannico William Thomas Garbutt, atterrato sul Tevere con lidroplano. Pazienza per la Coppa delle Fiere (ma guai a chi ce la toglie) acciuffata nel 1961 dallargentino Luis Carniglia. Chi fa più caso, poi, che nel 1972 cera laltro argentino Helenio Herrera ad allenare la Roma campione del Torneo Anglo-Italiano? La Supercoppa nazionale, oltretutto, è toccata allo scudettato Capello (2002) e al malinconico provincialfiorentino Luciano Spalletti (2008).
A questo punto ci sarebbero già i numeri per insospettirsi. E quando poi si volge lo sguardo alla Coppa Italia? Nove trofei, mica pochi, tutti belli e meritati ma nemmeno uno di questi è stato alzato in aria da un allenatore cittadino di Roma. Brutta bestia la statistica: nel 1964 ancora un argentino, Juan Carlos Lorenzo; quindi Herrera nel 1969; tre volte Liedholm (1980-81-84); un altro scandinavo, Sven Goran Eriksson, nel 1986; il bresciano Ottavio Bianchi nellaltrimenti orribile 1991. Dopodiché siamo a ieri, con le due Coppe di Spalletti (2007 e 2008) su quattro finali consecutive contro lInter. Anche se il merito (si fa per dire) dessere giunti alla prima e infausta sfida devono dividerselo in staffetta Prandelli, Voeller, Sella, Delneri e Conti. Ora, a conti fatti, significherà pure qualcosa se lallenatore giallorosso vincente nato più vicino al raccordo anulare viene dalla Valdelsa? Dice, ma con questi nomi e questi numerini dove vuoi arrivare? A Testaccio, nella macelleria della famiglia Ranieri. Anzi per lesattezza in via della Piramide Cestia, dove è nato lallenatore sopraggiunto nella Capitale quando Luciano Spalletti ha messo il muso e se nè andato senza che nemmeno un pazzo transennasse luscita di Trigoria o i caselli autostradali per trattenerlo. Non che Ranieri non fosse nellaria, però mentre arrivava lui qualcuno deve averlo pensato, sia pure senza dirlo chiaro. O forse qualcuno lo ha già detto ma non ce ne siamo accorti: che cosa succede quando la Roma è allenata da un romano? Ottavo posto con Bruno Conti (in realtà nettunense), prima ancora una squadra orgogliosamente anonima con lepico Mazzone in panchina, nei tragici anni Novanta, e via così con la memoria che comincia ad annebbiarsi. Accidenti al fondale della memoria, perché a dragarlo con piglio implacabile si può perfino finire a rimpiangere Zeman coi suoi zeru tituli e schemi sontuosi. Ma anche no, troppi derby in malora. Dunque Ranieri. Certo essere romani nella Roma è un onore a prescindere, anche se lui sarrangia troppo per ripulire linflessione di Testaccio. In fondo questo è un anno da lupi in cattività, in fondo sta facendo bene, in fondo chissà. Ci sarà pure una prima volta.