LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Che faccia parlare più di chiunque altro tesserato della Serie A, fra calciatori, allenatori, dirigenti e presidenti, è un dato non confutabile. Che abbia intenzione di continuare a fare parlare, e interpretare, è tutto da dimostrare. Perché già da tempo Mourinho, ancora più di prima, ha capito l'aria che tira. Oneri e onori. Sarà sempre la Roma "di Mourinho" a vincere. Ma sarà anche sempre e soltanto "Mourinho" a perdere o a non valorizzare. È il destino dei grandi. Naturalmente accentratori. Smaccatamente superiori. Fisiologicamente magnetici.
Da quando osservatori e commentatori hanno stabilito che il calcio doveva essere diviso fra giochisti e risultatisti, Mourinho è stato nominato diavolo e Guardiola acquasanta. Di conseguenza, per associazione di idee, i giovani tecnici che si ispirano allo spagnolo vengono considerati discepoli illuminati, indistintamente. Che siano bravi sul serio per dimostrazioni sul campo, o siano bocciati dai fatti, sempre sul campo, c'è e ci sarà sempre una critica più morbida rispetto ai cosiddetti pezzi da antiquariato che per caratteristiche o ideologie hanno optato per una visione più pragmatica del pallone. Ma fa parte del gioco.
Da sempre, gli allenatori dividono più dei calciatori, creano involontariamente degli eserciti contrapposti, quasi delle sette, al punto che tra addetti ai lavori e tifosi si arriva a fare il tifo per la squadra rivale pur di vedere trionfare l'allenatore preferito. Ma in fondo il calcio è uno sport(?) diverso dagli altri proprio per questo. Non a caso il calcio è lo sport più amato. Perché più di ogni altra disciplina incarna le caratteristiche dell'essere umano. Può essere generoso e leale, ma anche ruffiano e meschino. Rappresenta al meglio pregi e difetti dell'uomo. Mentre invece se si ricercano i principi decoubertiniani, ci si può rivolgere altrove. Al rugby, al volley, forse ancora anche alla boxe. Non al calcio. Perché il calcio è amato da tutti anche perché è uno sport chiacchierone. E che si fa parlare alle spalle.
Quindi se nel calcio c'è un big assoluto, uno dei migliori di sempre, che in più è anche il più grande personaggio sportivo mediatico contemporaneo, si andrà oltre. José Mourinho, classe 1963, si afferma e si consolida nell'era in cui i top player somigliano sempre di più ai calciatori della playstation. Grandi colpi, qualità eccelsa, ma per dichiarazioni bomba rivolgersi altrove. Non a caso è calcisticamente coetaneo di Messi e Ronaldo, i più grandi degli ultimi venti anni. Ma che non hanno mai lasciato traccia attraverso un'intervista o una conferenza stampa. Mourinho lo sa. Ci sguazza fra i media, potrebbe tenere seminari di comunicazione.
Ma Mourinho oltre a sapere, conosce se stesso. Sa che le sue dichiarazioni regalano generosamente titoli a nove colonne per una settimana, e che un argomento ispirato da lui col passare delle ore verrà ingigantito, distorto, modellato a uso e consumo utilitarietico dai mass media. Insomma, per gli organi di informazione, per i forum televisivi, radiofonici, social, Mourinho è una manna. Facilita il lavoro.
La Roma perde malamente a Cremona? Lui passa quindici minuti a parlare della disfatta, evidenziando colpe e problemi. Poi legittimamente gli si chiede della questione Serra, il quarto uomo della discordia, e di Cremonese-Roma non parlerà più nessuno. E nel giro di due giorni l'argomento sarà stato artatamente risceneggiato. Perché in punta di penna i trasformisti avranno tagliato la disamina della partita affermando "Mourinho ancora una volta ha nascosto le pecche della Roma dando la colpa agli arbitri". Bugia, omissione, falsità. Funziona così.
Per questo, anche per questo, sta riflettendo sul possibile cambio di rotta. Perché da un lato è il più abile di tutti a giocare le partite anche davanti ai microfoni. Dall'altro sa che le sue micce possono fare esplodere bomboni inopportuni, controproducenti. A maggior ragione ore che il comportamento della sua panchina è finito definitivamente nell'occhio del ciclone dopo la baruffa del derby. L'ennesima. Potrebbe avere deciso di vestire i panni del pompiere, non semplice per lui, per evitare di fornire ulteriori assist. Lui che sa bene quanto conti il risultato, nel segmento di stagione in cui si oscilla tra la gioia del traguardo tagliato e il flop, potrebbe ridurre il numero di interventi a margine delle partite, anche una volta finito il silenzio stampa del suo club, consapevole e cosciente che nell'era delle opinioni divise con l'accetta, in un senso e nell'altro le sue parole non saranno mai pesate e giudicate in modo del tutto obiettivo.
Perché nel regno dei grandi ci sarà sempre una corte composta da servi sciocchi, oppositori leali o maldisposti per pregiudizio, collaboratori stretti ambigui e doppiogiochisti, anonimi umani che adulando cercheranno un posto al sole da raggiungere facendo parlare di se stessi grazie alla luce riflessa. Per cui José Mourinho potrebbe decidere di limitare se non del tutto tagliere i viveri di sussistenza al circo mediatico della Serie A. Che quando Mourinho andrà via forse si renderà conto appieno della necessità di avere allenatori come lui. Non soltanto per discussioni calcistiche. Perché nell'età dell'oro ci si sfregava le mani quando parlavano i giganti Trapattoni e Liedholm, Sacchi, Maradona, Platini e Falcao. Che sapevano andare oltre le chiacchiere sugli schemi tattici.
Oggi ci si arrabatta fra calciatori anche forti ma del tutto anonimi, coi capelli e scarpe tutti uguali fra loro, borselli e bordelli tutti uguali, allenatori spesso restii persino a togliersi la tuta per indossare un paio di pantaloni con le pinces per presenziare a un evento. Che davanti ai microfoni leggono copioni monotoni, banali, stantii. Nel calcio si odono violini quando Spalletti spiega i movimenti palla al piede di Lobotka. Ma servono come il pane anche i commenti dei Mourinho che sanno andare oltre, per fortuna, le litanie tattiche. Perché il mondo del calcio non si forma ma non si ferma a Coverciano.
In the box - @augustociardi75