LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Le parole post match, a caldo, in campo, di Mourinho, non sono state le classiche considerazioni di fine stagione, culminata con la gioia della coppa appena vinta. Possono essere archiviate come le prime dichiarazioni della stagione 2022-23.
In questo consiste la grandezza del migliore di tutti. Che risulti simpatico o antipatico, che sia amato o meno, Mourinho è diverso. E ha reso diversa la Roma. Non parlo dei tifosi, che comunque hanno trovato una coesione magnifica che fa avanzare il gruppo Roma come un blocco monolitico in un'unica direzione. Mourinho ha cambiato i connotati della Roma società, dei tesserati della Roma, di chi orbita attorno alla Roma, dei collaboratori e delle maestranze. Ascoltate di nuovo le parole di Pellegrini e di Pinto a fine partita. Leggetele fingendo di non sapere chi le abbia dette. Penserete che abbia parlato Mourinho. La Roma si è definitivamente mourinhizzata. Che era il modo più intelligente, e unico, per cambiare il corso della storia.
In passato una partita così sarebbe finita ai supplementari. Perché in fondo "la storia della Roma è questa, prima i supplementari con beffa e poi la sconfitta ai rigori". Cazzate. Non c'è più bisogno di riti propiziatori, non servono sciamani, non è più tempo di sposare la scaramanzia o ricondurre tutto all'infame destino. L'hashtag #mainagioia è oramai un modo di dire più patetico del Chiedo per un amico o del Se è porno tolgo.
La Roma ha scelto di affidarsi al miglior neurochirurgo al mondo, che ha trapiantato un cervello nuovo. Che ha rotto col passato fatto di vorrei, forse potrei, ma non ci riesco, e in fondo non ci ho neanche provato. Il collezionista di coppe tende alle vittorie, i suoi ricordi vincenti alimentano le future ambizioni, vive un tempo davanti agli altri. Mourinho ha un dono, la riconoscenza. Facile, direte. Ha vinto ovunque. Ma quelle vittorie non le ha pescate dal mazzo, le ha costruite. Come a Roma. E allora è normale che si ritenga legato al Porto e all'Inter, al Chelsea e al Manchester e al Real. Il Tottenham? Lasciamo stare, lì forse al massimo può attecchire Conte fino a quando pure lui se ne andrà sbattendo la porta. Il Tottenham è una causa persa, non sempre per colpa degli allenatori. La riconoscenza, dicevamo. Che gli permette serenamente di ricordare il passato anche se il suo passato si scontrava con l'attuale presente. Sempre meglio di chi giura amore eterno e poi appena gira l'angolo e svolta altrove fa piovere rancori e livori.
Ma stavamo parlando di vincenti. Che sono diversi rispetto alla media, rispetto ai livorosi, ai rancorosi. Rispetto agli invidiosi. I vincenti fanno i conti con gli invidiosi, che danno di gomito a chi poi si fa trasportare fino a scendere ai loro livelli. E allora il vincente viene etichettato come quelle definizioni che in fondo, per pietà umana, non meriterebbero neanche vecchi allenatori col dente avvelenato che, per colpa di chi ancora va a caccia delle loro dichiarazioni, si permettono di giudicare chiunque da un piedistallo di pongo. Tempo perso.
Mentre proviamo a scrollarci di dosso la polvere e le ceneri, di una povertà che forse è alle spalle, mentre allungando il collo cerchiamo finemente l'aria pulita della vittoria, lui, il neurochirurgo, sta già pensando ai ritocchini, affinché Tirana non sia il traguardo, ma l'inizio di una sinfonia inedita. Che fra gli strumenti, non prevede i tromboni.
In the box - @augustociardi75