LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Donnarumma e Mkhitaryan, ma anche Haaland e Koulibaly, o Calhanoglu. Differenza di età, eccellenze del nostro campionato e stelle europee. Gestiti da supermanager. Spunti di riflessioni. Destini che possono somigliarsi. Il calcio apre definitivamente le porte a una nuova era. I club sono vittime di se stessi. Un suicidio a rilascio prolungato che viene ideato a inizio anni duemila, quando la pioggia di soldi che cadeva tipo manna dal cielo, grazie a sponsor e diritti televisivi, e poi premi Uefa, invece di servire per irrigare i campi è stata convogliata nelle saccocce di calciatori e manager.
Col passare degli anni, sfuggita di mano la situazione, gli stessi club hanno provato a ingegnarsi affidandosi a una creatività maligna. Diritti di riacquisto, prestiti onerosi ambigui, giri di plusvalenze che avrebbero allertato qualsiasi organo di controllo se fossero stati certificati in altri ambiti, ma che nel calcio hanno sempre potuto contare su vigilanti dormienti. Fino a che il cortocircuito causato dal Covid non ha bucato la bolla gonfiata da proprietari e dirigenti scellerati. Resi disperati dagli ultimi tragicomici anni. L'era delle plusvalenze ha accelerato il processo di morte. Nessuno ha mosso un dito, perché non conveniva a nessuno (leggi: il più pulito c'ha la rogna), tutti o quasi in silenzio mentre sbarbati provenienti dal vivaio, senza un briciolo di esperienza nelle prime squadre, venivano ceduti a club amici per cifre illogiche se non addirittura immorali. Club amici che dopo massimo un biennio li rispedivano al mittente spesso alle stesse cifre "spese" per "acquistarli". E chi li riaccoglieva in casa, a cifre spropositate, si ritrovava con nuove potenziali minusvalenze, l'impossibilità di rimettere in circolo calciatori con valutazioni immonde e con i problemi che sbucavano irrisolvibili da sotto il tappeto.
In questo museo degli orrori, sono andati agli atti scambi di cartellini a prezzi stabiliti non dal rendimento stagionale ma dai commercialisti. Un sistema autolesionistico all'interno del quale gli unici soldi freschi erano quelli incassati dai calciatori e dagli agenti sotto forma di commissioni. Morale della favola? Finita la presunta pacchia, oggi molti club hanno più interesse nel liberarsi degli ingaggi assurdi che nel recuperare soldi dalla cessione dei cartellini, sapendo che le società acquirenti vivono gli stessi tormenti. Una collana di oscenità che fra le perle più luccicanti ha visto calciatori spostarsi in prestito per un milione di euro salvo poi completare operazioni di cessione per 187 milioni l'anno successivo, quando si apriva un nuovo corso di bilancio.
Fra pochi giorni inizia l'Europeo. Il portiere titolare della Nazionale è senza una squadra, perché il Milan, che fino a due anni fa chiedeva almeno 70 milioni, oggi preferisce perderlo a zero, piuttosto che sborsare circa 20 milioni lordi per il suo stipendio stagionale. Risultato? Donnarumma all'esordio contro la Turchia potrebbe avere in sovrimpressione la scritta "portiere Raiola FC". Perché i club hanno lasciato campo ai manager, che oggi indirizzano i calciatori sapendo di essere in posizione di forza, magari per uno o al massimo due anni, in cambio di una commissione (le cifre spese in commissioni dai club italiani negli ultimi cinque anni fanno arrossire) e di stipendi che sono una via di mezzo fra i vecchi giganteschi emolumenti e quelli nuovi, sempre alti ma meno XXL.
Piccolo margine di rischio che ancora frena questo meccanismo: il calciatore che firma per pochi anni dovesse infortunarsi o incappare in una stagione negativa, rischia di avere minor potere di negoziazione, anche se il paracadute sta proprio nei supermanager, che hanno avuto l'abilità di creare filoni di mercato inesauribili. Il calcio, o meglio il calcio inteso in una certa maniera, è alla frutta. La FIFA per anni ha annunciato la guerra ai famosi fondi sudamericani che si spartivano i cartellini dei calciatori manco fossero multiproprietà. Una guerra annunciata ma mai iniziata. Ricordate quando il fondo MSI trasferita Tevez e Mascherano dall'Argentina al Corinthians, per poi portarli al West Ham, e quindi smistarli nei top club? Si gridava allo scandalo. Ma nessuno muoveva un dito. Oggi quelle eccezioni diventano la regola.
I supermanager hanno avuto il merito di fare magnificamente il proprio lavoro, sfruttando l'inettitudine di società, soprattutto quelle blasonate, che da holding annoveranti aziende (i calciatori) oggi si ritrovano a voler dismettere le aziende stesse (i calciatori), smettendo di patrimonializzare, perché questi asset diventano improduttivi, anche a causa dell'assenza di liquidità, e quindi di potere di acquisto, di club potenzialmente acquirenti, che un tempo avrebbero speso cifre esorbitanti per togliersi lo sfizio di turno. Un massacro. Un crimine efferato sotto gli occhi di FIFA e UEFA, i famosi controllori, che oggi fanno pupulisticamente la voce grossa contro la Superlega, partorita come atto di disperazione da club indebitati fino al collo, ma che mai hanno mosso un dito per salvare il salvabile. E poverini quei tifosi che si inorgogliscono ed emozionano quando Ceferin e Infantino ammiccando alle telecamere affermano che "il calcio è della gente".
In the box - @augustociardi75