LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Volevano giocare, si indignavano se gli chiudevano gli spalti mentre tutto il mondo prendeva atto che il virus era in circolo e stava per costringere il mondo a chiudersi in casa. Volevano giocare perché giocare significava incassare soldi, delle rate, altrimenti in discussione. E per questo, a inizio marzo, mettevano in scena inopportune litigate negli uffici che li ospitava per riunioni consorziali, quando gli si chiedeva soltanto di dare l'ok alle porte chiuse. Volevano giocare e non riuscivano neanche ad accordarsi per rinviare una partita, a Parma, mentre l'epidemia prendeva le sembianze della pandemia, inscenando un ridicolo balletto menato da telefonate e scambi di messaggi, all'ora di pranzo, mentre al Tardini, arbitro e calciatori aspettavano a centrocampo, spaesati, indicazioni contraddittorie. Volevano giocare, e trovavano facili alleati tra chi si prestava al gioco, reggendo il megafono.
Il calcio, descritto fino a poche settimane prima come una bagnarola alla deriva, il calcio degli stati obsoleti e dei millemila milioni di euro di indebitamento, diventava magicamente, “la terza azienda del Paese”, la filantropica associazione di benefattori che “fa lavorare milioni di italiani”. E poco importa se nel frattempo tra questi italiani c’erano magazzinieri, segretari e maestranze varie che il calcio, quello luccicante di prima classe, metteva in cassa integrazione (chissà se staranno ancora aspettando la mesata di marzo…). Già, il virtuoso calcio di colpo non aveva più i soldi per pagare stipendi da mille e cinquecento euro, proprio quel calcio che strapaga i tesserati, al punto da avere quasi più spese che ricavi. Quel calcio che, però, veniva incensato perché “finanzia tutti gli sport, e rende felice la gente”. Quegli sport che autonomamente avevano già deciso di fermarsi. Quella gente, molta, che voltava le spalle al pallone. Questione di priorità. Arrivavano i primi “no alla ripresa" da molti gruppi organizzati di tifosi, ma sparivano nell’indifferenza dei media che, se invece i gruppi organizzati avessero perorato la causa calcio, li avrebbero sparati in prima pagina, a tutta pagina, a nove colonne, tipo poster da cameretta. Invece no, al massimo un piccolo box a pagina ottantamila, tra la pubblicità delle pasticche per la prostata e le previsioni del tempo. Sorry, andava spacciato il calcio per ciò che non è. Ossia vittima di un complotto. Passavano le settimane, e anche i più ingenui si rendevano conto che fosse tutta una questione economica, di interessi, e non di vita o di morte, perché nessuno sarebbe fallito, come prefigurato dagli untori di negatività artefatta. Che poi il calcio piace a tutti, sia chiaro, anche a chi ha manifestato due mesi di perplessità, magari perché in periodi in cui sfilavano bare e i numeri relativi a contagi e decessi erano da ecatombe, faceva ribrezzo leggere e sentire appelli accorati affinché tornasse uno sport che avanzava pretese intollerabili. E si giudicava fuoriluogo l'arroganza sguaiata dei boss calcistici, spalleggiati dai reggitori di megafoni.
Chi ieri manifestava dubbi sulla messa in scena di un’appendice di stagione condensata tra mille difficoltà, oggi non si sorprende se i presidenti dei club di Serie A, ottenuto l’ok del Governo, tornano a scannarsi perché vogliono ridurre il numero delle partite da giocare, rinnegando la Coppa Italia che non porta soldi ma “soltanto” un trofeo (alla faccia dei valori dello sport). Oggi a scandalizzarsi per cotanta ingordigia sono i reggitori di megafono, che hanno spacciato una manciata di partite di Bundesliga a porte chiuse per l'evento del millennio. E allora, siete tra coloro che amano il calcio ma che da metà marzo hanno avuto altro a cui pensare? Non sentitevi in difetto o, peggio ancora, traditori. Siete umani, siete puri. E non megafoni calcolatori. Ciò che siamo, come ci comportiamo, non sfugge agli occhi del destino.
In the box - @augustociardi