LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Fisiologico il desiderio dei tifosi di avere grandi ex calciatori nei quadri dirigenziali. Legittimo. Persino tenero nella sua purezza. Nell'era in cui i club hanno cambiato i propri connotati, rendendo rari i casi in cui esistono ancora strutture societarie vecchie maniere, la voglia di simboli dell'appartenenza deflagra in tutto il suo candore. Sfociando nella mistificazione della realtà. Facciamo chiarezza. I grandi dirigenti con un passato da bandiera si contano sulle dita di una mano. Ricordiamo Boniperti, braccio pensante della Juventus degli Agnelli, in un calcio da tubo catodico. Da Juventus a Juventus arriviamo a Nedved. Bandiera bianconera? Ni, molto meno di Del Piero, che arricchisce la schiera di ambasciatori che i club aggregano a se stessi spesso più per accontentare i tifosi bramosi di beniamini che per necessità. Nedved e Boniperti. Minimo comune denominatore: la Juventus. Indiscutibilmente il club con la migliore struttura esistente in Italia. Poi? Nel Milan non ha mai trovato spazio Rivera, troppo distante da Berlusconi. Franco Baresi c’è ma non lo vedi, dirigente per ciò che rappresenta nella storia e non per operatività. Oggi tocca a Maldini e Boban, acclamati al pari di Leonardo, che ancora una volta ha fatto toccata e fuga (un affascinante habitué del mordi e fuggi). Neanche il capitano dei capitani e la mente pensante croata riescono a togliere il Milan dalle melmose acque della mediocrità. Galliani non si diventa per diritto divino. Soprattutto senza un Berlusconi al top. Nell'Inter per pensare in grande è dovuto arrivare Marotta. Javier Zanetti non poteva bastare. Da anni segue come un'ombra Zhang Junior nei suoi
soggiorni milanesi, ma ciò non lo rende imprescindibile. Non avendo neanche avuto i mezzi per arginare il diluvio provato dal suo connazionale Icardi. In nerazzurro, l’eccezione è stato Facchetti. Da simbolo in campo dell’Inter di Angelo Moratti a figura dirigenziale forte dell’Inter di Massimo Moratti. L’altra bandiera, Sandro Mazzola, non ha lasciato segni indelebili. A Napoli i romantici sognano ancora una scrivania per Maradona, che preferisce passare da una panchina improbabile all'altra in giro per le Americhe. Nella Lazio c’è Tare. Che in biancoceleste ha giocato, ma le bandiere sono un’altra cosa, lui più che altro è un fedelissimo del presidente. La Fiorentina ad anni alterni coopta Antognoni. Suggestivo vederlo nelle foto di rito e nelle inquadrature che contano...
E la Roma? Da decenni si invocano tutti. Falcao, Völler, Boniek, Giannini, Aldair, Rocca, Totti. Quando la Roma perde si chiede una figura forte che faccia sentire chissà quale peso negli spogliatoi. Quando la Roma è defraudata, tipo in questi giorni, si auspica che a prenderle le difese sia un’icona del giallorosso. Ma non è facile. Con Viola e Sensi gli scudetti si sono vinti. Ma i big non stavano dietro la scrivania con gli scarpini. Stavano in campo e in panchina. Perché fare il dirigente è un’altra cosa. Non basta avere alzato trofei con la fascia da capitano. Non basta avere fatto centinaia di gol o parato millanta rigori. Serve preparazione. Voglia. Pazienza. Capacità comunicativa. Il magnetismo è un plusvalore, ma non basta. Ci si deve confrontare in salotti televisivi frequentati da scaltri parolieri. In uffici manageriali in cui nuotano squali famelici. Su tavoli di negoziazione bazzicati da maestri di poker, spesso bari. La vita da manager non utilizza la lingua universale del gol. L’essere un idolo delle folle serve ma non basta. Aiuta ma non risolve. Per vincere fuori dal campo occorrono strutture societarie impeccabili, manager scaltri, tempisti, pronti semmai a sfilarsi la cravatta e non la maglia da calciatore. Perché spesso i contrasti più duri sono fuori dal campo.
In the box - @augustociardi