Javier Pastore ha parlato attraverso una diretta Instagram sul profilo argentino "eeafporteros", parlando del suo momento nella Roma e della stagione giallorossa, oltre che delle esperienza passate in Argentina. Queste le sue parole: “La quarantena si sta allungando. Con il calcio viaggiamo spesso e siamo poco a casa. Questo periodo ci sta facendo stare molto insieme in famiglia. Lo stiamo sfruttando e ci stiamo allenando al meglio possibile”.
Eravamo un bel gruppo al Talleres…
Ricordo sempre con piacere gli anni della mia infanzia. Non avevamo videogiochi e c’era solo il calcio. Anche quando ci vediamo ora è come se non fosse passato il tempo. Ci divertiamo sempre alla stessa maniera. A quel tempo forse non ci pensavo molto a quello che facevo, adesso invece ricordo davvero con piacere e mi emoziono sempre a pensare quanto era importante per me il calcio in quegli anni iniziali.
Già quando eri piccolo avevi questa caratteristica di giocare tranquillo e a testa alta. E’ questo il tuo modo di giocare?
Me lo hanno sempre detto in molti. Ho questo modo di giocare sempre con molta calma e ho tanta convinzione in quello che faccio. Già da piccolo sognavo di andare in Europa e di giocare con l’Argentina. Per certi versi è stato normale fare la mia carriera, perché già sognavo di farlo. E’ importante fissarsi un obbiettivo e lavorare per quello. F
Come è stato il tuo arrivo all’Huracan? Come hai vissuto l’impatto con un grande gruppo e con il tecnico Angel Cappa?
Non è stato solo passare di categoria dal Talleres all’Huracan. Il primo campionato non ho potuto giocare per un problema al transfer. Per sei mesi mi sono allenato da solo in una struttura per due volte al giorno. Quindi nessun allenamento con la squadra il primo anno. Il campionato dopo ho giocato poco. Alla fine del secondo campionato ho giocato di più, con altri giocatori giovani e furono partite molto importanti contro River, Velez e Lanus. Così arrivò Cappa l’anno dopo e avevamo un rapporto paterno con lui.
Era un piacere vedere quell’Huracan anche perché Cappa era uno di quegli allenatori che ti convinceva a dare di più. Dall’Huracan sei andato in Europa, al Palermo. Come è stato l’adattamento in Italia?
“E’ stato molto difficile, perché all’inizio ero esile fisicamente e non lavoravo molto. Era difficile per me mettere massa muscolare. Nei primi sei mesi ho avuto difficoltà. La gente di Palermo è stata molto calorosa, però in campo non riuscivo a relazionarmi bene con i compagni. Mi costò molto. Avevo un tecnico, Delio Rossi, che mi chiamò il primo giorno con Sabatini e mi disse di aspettare e fare allenamento. Nel primo periodo si fermava con me per farmi lavorare e chiamava alcuni giovani della primavera per farmi vedere i movimenti tattici. Ogni giorno così. Ho iniziato così a intendermi con i compagni e a giocare meglio. Il secondo anno a Palermo è stato il migliore. L’importante è stato darmi convinzione. All’inizio mi avevano detto che non correvo, che non avevo forza, poi invece Delio Rossi in un mese mi insegnò tatticamente come funzionavano le cose in Italia.
Cosa è stato affrontare grandi portieri come Buffon, Julio Cesar, Dida e tanti altri?
Ho avuto la fortuna in quel periodo di giocare con i migliori e contro i migliori. Avevo piacere nel giocare contro di loro anche perché porto sempre un bel ricordo e tante magliette. Come ad esempio quella di Toldo, che per me era un mito.
Poi un salto spettacolare, quello al PSG, nel primissimo periodo. Che periodo è stato?
Io sono un tipo molto tranquillo e umile ed entrai in un contesto grandissimo. Ero uno degli acquisti più cari, di una squadra che stava iniziando a costruire una squadra importante. Thiago Motta, Maxwell, Lugano, Menez, Gameiro e poi tanti sarebbero arrivati. L’obbiettivo era entrare in Champions così da attirare altri giocatori foti. Le cose ci andarono bene.
Ti divertivi anche con questi campioni?
Il primo anno fu difficile, anche il dialogo. Menez mi ha aiutato con l’italiano, poi c’erano Sissoko e Nene. All’inizio era un gruppo molto umano, poi arrivarono personalità incredibili. Lavezzi è stato il miglior compagno che ho avuto nello spogliatoio. Si allenava sempre bene e aveva un aspetto umano incredibile. Ci capitava di tornare tardi da una trasferta e Lavezzi diceva di andare da lui a mangiare una pasta. Quindi io, Ibrahimovic, Maxell e tutti gli altri partivamo per fare questa cena notturna.
Come si manteneva questa coesione di gruppo con tutte queste stelle?
Non è mai facile in queste squadre importanti, come al Barcellona, al Real o al Manchester. Proprio per questo ci sono grandi rivalità, grande ego che si affrontano. Senza dubbio. Ogni giocatore che viene vuole essere il migliore. Quello però che creammo fuori dal centro d’allenamento era importantissimo ed era molto difficile che qualcuno rimanesse solo. Questo ci porto a vincere tutto in Francia, perdemmo in Champions, ma creammo una grande unione più grande di qualsiasi problema.
La Selecciòn era il sogno da bambino. Rappresentare il tuo paese…
E’ la cosa più importante ed emozionante per un giocatore a questo livello. Vedere la gente cantare l’inno è qualcosa di unico. Non c’è inno di Champions o altri che tengano. E’ il massimo, soprattutto perché con la nazionale puoi competere con i migliori del mondo e anche allenarti con i migliori connazionali.
Hai avuto sempre un buon rapporto con i portieri?
Con Pau Lopez abitiamo vicini, siamo spesso insieme. Sirigu è il padrino di mia figlia. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i portieri. Sono matti!
Cosa diresti al Javier giovane?
Potrei dirti cosa direi a un bambino di nove anni, ossia che tutto quello che sogna è possibile e si può ottenere con voglia, impegno e responsabilità. Questo il consiglio che potrei dare