
THRIVING MINDS - Guido Fienga, ex amministratore delegato della Roma, ha rilasciato un'intervista al podcast di Alberto Zandi e tra i vari temi trattati è tornato a parlare della sua avventura nel club capitolino. Ecco le sue dichiarazioni: "Quando sono stato il CEO della Roma ho capito che nella vita puoi anche trovare il nuovo vaccino per curare il cancro, le persone saranno felici e qualcuno ti inizierà a conoscere, ma quando stai vicino a gente come Totti e Ronaldo tutti ti conosceranno, ti cercheranno e ti vorranno. Quindi se non sei super equilibrato rischi di perdere il controllo di te stesso e diventi vanitoso e pieno di ego".
Quando scegli i calciatori ci sono due strade differenti: nel primo caso li formi partendo dal settore giovanile, altrimenti li compri. Soffermandoci su quest’ultima possibilità, come funzionava alla Roma? Come li sceglievi?
"Questa è una delle principali abilità di un ds. Non è difficile sapere se un giocatore è bravo o meno tecnicamente, la cosa più importante è capire se quel calciatore può rendere all’interno di una squadra. Bisogna cercare di capire la sua capacità di ambientamento e la crescita all’interno di tale ambiente. Quando ho iniziato non avevo quasi esperienza, quindi il ds mi diceva: ‘Guido, fidati di me perché tu non capisci molto di calciatori ma questo è un crack!’. E poi dopo un anno vedevi che le cose non erano andate in quel modo. Così inizi a parlare con i giocatori e quando guardi la faccia capisci immediatamente se è brillante o intelligente. Dopo un paio di anni andavo da ogni direttore e dicevo: 'Le regole sono cambiate. Se non capisco qualcosa non è perché non capisco di calcio, quindi fai in modo di farmi capire altrimenti non si fa niente. Inoltre prima di comprare un giocatore voglio farci un'ultima chiacchierata, come quando assumo un dipendente nel reparto marketing... Voglio capire che tipo di persona sia, voglio sapere informazioni su di lui e sulla sua famiglia. La vera differenza nel 99% dei calciatori la fa la testa. Ci sono soltanto due Messi e Ronaldo, gli altri possono essere tutti sostituiti. La differenza è nella testa e nel talento, loro sono unici mentre gli altri possono essere cambiati nonostante uno sia più forte o veloce. Non seguite quelli che dicono 'Non si può giocare senza questo giocatore'. Si gioca in 11, se non hai un giocatore se ne prende un altro".
Quale è la differenza nello stile di vita tra i grandi calciatori e quelli normali?
"Io divido i grandi calciatori in due categorie. Una riguarda il talento naturale e a questi calciatori Dio ha donato il talento. Io ne ho avuto uno di questi ed era Francesco Totti. Capisci che Totti è differente già da come tocca il pallone, la palla fa un movimento differente con lui. Colpisce la palla senza neanche guardare il campo e finisce esattamente sul piede dell'attaccante. Poi c'è Ronaldo, che ha talento oltre al duro lavoro. Chi è super talentuoso spesso è pigro perché sa che non deve lavorare molto per fare comunque la differenza, ma nel mezzo della carriera iniziano a capirlo. Totti ha finito a 40 anni, se parli con lui ancora crede di essere talmente forte da poter giocare in Serie A. Sto scherzando, è un mio amico (ride, ndr)".
Come gestisci la gerarchia all'interno di un club? Di solito il CEO è il dipendente più pagato nelle aziende, ma nel calcio non è così...
"Quando inizia la stagione il CEO entra nello spogliatoio e non hai più di 5 minuti per parlare, perché i calciatori ti ascoltano e non rispondono. Ma tutti i campioni hanno questa caratteristica, ovvero ti scannerizzano e capiscono se sei il leader. Se non lo sei e loro lo capiscono non te lo dicono, ma iniziano a ignorarti e allontanarti. Se capiscono che sei il leader ti rispettano e hanno quasi paura di te. Gestisci un gruppo di uomini e loro devono rispettarti anche se non sei il più pagato. Un errore da non fare è mostrarti come un loro fan, non devi accontentarli per stare vicino a loro. Alcuni fanno questo errore e perdono il rispetto in un minuto. Non ho mai avuto problemi nella gestione dei calciatori, dato che non hanno mai dubitato sulla mia leadership. Ho sempre rispettato i calciatori e li ho anche coinvolti in molte decisioni. Durante il COVID ho fatto una business review con l'obiettivo di capire come gestire questa strana situazione per quanto riguarda l'allenamento. Alla fine la decisione è stata la mia, ma è stato divertente fare una riunione con giocatori top ed esperti come Dzeko, Kolarov, Mkhitaryan. Ho raccolto le loro idee e poi ho preso una decisione aggiornando loro sul piano eseguito. Questo è il mio stile. I calciatori sono contentissimi quando non vengono considerati soltanto come cavalli che devono correre, segnare, avere belle macchine e donne. Loro possono essere parte del progetto".
Puoi descrivere Mourinho con tre parole?
"Super intelligente, abile nel suo lavoro e la terza parola non posso dirla... (ride, ndr). In privato è divertentissimo. È una bella sfida essere il CEO di Mourinho, ma non lo sono stato per molto. In una delle prime partite abbiamo ricevuto quattro espulsioni, è stato un bel benvenuto dello stile di Mourinho. Ho una bel rapporto con lui, probabilmente perché non ho lavorato molto con lui come CEO. L'ho soltanto portato alla Roma e lavorato per un po' di mesi insieme, ma ci sentiamo molto".
Un episodio curioso con Mourinho protagonista?
"Quando decisi di lasciare la Roma è venuto da me e disse: 'Guido, ci sono soltanto due maschi alpha in questo club e ora uno se ne sta andando...'. E io gli risposi: 'Buon per te (ride, ndr)'. Questo è il motivo per cui ho mantenuto un buon rapporto con lui. Per un CEO lavorare con un allenatore che è in continuo contrasto con il mondo arbitrale e della Lega è come essere un pompiere in California. Ma Mourinho è molto intelligente e bravo. Ho molte cose da dire ma non posso per la reputazione di entrambi (ride, ndr)".
Il calcio rappresenta molti aspetti della vita e per molti è come una religione. Ti ringrazio per ciò che hai fatto per questo sport e lo faccio anche a nome di quei tifosi ringraziano maggiormente i calciatori o gli allenatori...
"Non credo che i tifosi non mi ringrazino. All'inizio della mia carriera da CEO dalla Roma, dopo due settimane decisi di confermare la decisione, che era già stata presa, di non rinnovare il contratto di De Rossi. Dopo due giorni c'erano 7000 persone sotto il mio ufficio che volevano ammazzarmi. Sono stato sotto scorta per 4 mesi e questo è stato il mio inizio da CEO della Roma. Ti lascio immaginare l'accoglienza nei miei confronti. Ma poi ho continuato a gestire il club con piena trasparenza, spiegando ai tifosi che i nostri ruoli sono diversi: tutti vogliono raggiungere il successo, ma loro devono fare i tifosi e io devo fare il CEO. Poi è arrivato il COVID e abbiamo rischiato di avere gravi problemi economici, ma ho continuato a fare il mio lavoro trovando nuovi acquirenti. Sono stati due/tre anni di grande pressione, ma ho solo fatto il lavoro come so fare. Quando è terminato il mio mandato uno dei miei assistenti mi ha chiamato e mi ha detto che c'era una delegazione della Curva Sud, ovvero i capi delle 7000 persone che volevano ammazzarmi (ride, ndr), che voleva darmi un regalo. Mi è stato dato uno stemma della Roma con una nota in cui mi ringraziavano e mi chiedevano scusa. Scrissero che probabilmente non erano d'accordo con me su alcune decisioni, ma che avevano capito ciò che avevo fatto e mi rispettavano. Quando vado a Roma e la gente mi riconosce mi stringono le mani, non è una cosa così comune. Se fai bene il tuo lavoro la gente lo capisce".
In quegli anni alla Roma ti ricordi la cosa più importante che è successa a tuo figlio?
"Sì. Ha sofferto il fatto che suo padre fosse super esposto dal punto di vista mediatico, quindi quando a scuola si parlava della Roma e di me lui controbatteva. Inoltre nei weekend non potevo stare con lui perché dovevo stare con la squadra. Il risultato di tutto ciò è che a lui non piace il calcio. Immagina una casa in cui puoi incontrare Totti, Mourinho, Ronaldo ma per tuo figlio sono dei semplici ospiti".
Ti penti di qualcosa?
"Questo è il prezzo da pagare per il calcio, è una vita pazza. Io non stavo cercando questo ruolo, ero uno degli azionisti ma gli altri di Boston avevano dei problemi e mi chiesero di prendermi cura della Roma per 3 mesi per riorganizzare e poi vendere la società. Questi 3 mesi divennero però 3 anni tra il COVID e tutto il resto. Ho sottovalutato il peso delle cose, ma poi ho svolto il mio lavoro. Ora mio figlio ha 18 anni e io ho fatto il massimo per non farlo sentire come 'il figlio di Fienga'. Sono andato via da Roma esattamente per questo. Capisco che sarebbe stata una posizione troppo strana quella di essere il figlio del CEO della Roma, un club che è più di una religione".