
In occasione dell'evento Iliad Store di via Cola di Rienzo a Roma di una settimana fa circa, Francesco Totti ha rilasciato un'intervista anche a Cronache di Spogliatoio in cui ha ripercorso la sua carriera e si è raccontato.
Mostrano una foto di Giannini: "Sono cresciuto con l'idolo in casa, lo vedevo come un principe o un re. Ho cercato di rubargli movimenti, come giocava e quello che faceva durante il giorno. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, è una persona straordinaria, mi ha dato tanti consigli. La prima volta che l'ho visto ho dormito con lui in ritiro, dormivo con un occhio chiuso e uno aperto, non pensavo mai potesse succedere".
Ti ricordi la prima partita della Roma che hai visto da bambino?
"Mi ricordo che era un Roma-Napoli, sabato alle 14.00, il momento in cui stavano facendo lo stadio nuovo e mi sembra che fece gol Völler di testa all'ultimo".
La tua giornata tipo da tifoso bambino?
"Da bambino non pensavo tantissimo alla Roma, aspettavo la domenica. C'era solo 90° Minuto quindi le partite non potevi vederle e avevi solo quella mezz'ora per vedere tutti i gol della Serie A. La vivevi tranquillamente da innamorato. Ho iniziata a viverla dal momento in cui sono andato in Curva a 13-14 anni con mio fratello e mio cugino. Uscivamo la mattina con i panini con la frittata preparata da mamma intorno alle 10 di mattina, era una domenica diversa, dove c'era divertimento e facevi amicizia".
Altra foto di uno striscione "Grazie capitano" in Tevere: "Era la partita dei 300 gol, guarda che sono preparato".
Ti ricordi il momento in cui diventato capitano?
"Sì, mi sembra dopo Bergamo. Aldair da quel giorno disse che era giusto che diventassi capitano della Roma perché avevo un futuro, lui ci credeva tantissimo. L'ho presa con tranquillità, non mi rendevo conto di quello che stesse accadendo. Da quella domenica ho avuto un peso sulle spalle che nessuno può immaginare: oltre a essere romano, romanista, numero 10, avevi qualcosa di diverso dagli altri giocatori. La gente si aspettava sempre qualcosa in più. Conoscendo la piazza, crescendo riuscivo a mettere ovatta intorno a squadra e giocatori. Alla famiglia non l'ho comunicato io, l'ha detto la società e non pensavo fosse per sempre. L'ho letta male ma è stata una fortuna".
Sei stato un capitano silenzioso, ci sono stati momenti in cui hai dovuto alzare la voce?
"Non sono un capitano che insulta i compagni, che li attacca al muro. Non ho quel carattere, sono buono e semplice, anche se qualcuno mi stava antipatico ci andavo sopra, anche con quelli che non si comportavano bene. È normale che in campo riuscivo a dare qualcosa in più. Ho sempre pensato che non ci sia bisogno di alzare la voce. Alcune volte sarà capitano, ci sono state anche litigate nello spogliatoio. Una volta dopo una partita di Champions ho litigato con un giocatore a fine primo tempo, non so se fosse Burdisso. C'era anche il fratello. Dopo mezz'ora mi dispiaceva già, ma istintivamente ti viene. Sono tranquillo ma se mi attacchi, ti attacco anche io".
Pizarro ha detto che una parte bella della sua carriera era la partitella con te, spesso era tardi e tuo padre portava da mangiare.
"Mio padre era amato da tutti, arrivava alle 9 e cominciava a portare la pizza. Prima dell'allenamento la portava al bar o dai fisioterapisti, prima di scendere in campo la maggior parte dei giocatori la mangiava. Tutti i giorni lo aspettavano a Trigoria. Erano tutti innamorati di mio padre. Tutta Trigoria ricorderà, lui era buono. Lo soprannominavano lo 'sceriffo'".
Quando accompagnavi tuo figlio a Trigoria ti fermavi davanti ai cancelli.
"Adesso mio figlio ha cambiato squadra, ma quando lo portavo lo lasciavo lì e me ne andavo o aspettavo al terzo cancello come tutti gli altri giocatori. Da quel giorno non sono più entrato".
Nesta?
"Alessandro è un altro pezzo di Roma, cugino diciamo. Nel periodo calcistico non ci siamo mai frequentati, non era rispettoso nei confronti delle tifoserie anche perché prima erano altri tempi. Alla fine non stai facendo niente di male ma Roma è bella anche per questo. Poi mi è capitato di andarci a cena insieme. Lo reputo uno dei migliori al mondo in quel ruolo".
La prima azione di Totti nel derby qual è?
"Quando mi fece entrare Mazzone e presi il rigore da Negro. Mazzone mi disse di entrare e divertirmi, ero giovane e non hai tanti pensieri. Dopo li ho sentiti di più, erano derby pesanti e non volevi mai perdere, c'erano sfottò molto pesanti. I derby erano belli anche fuori dal campo. Prima si parlava già mesi prima della partita, tanti tifosi preferivano vincere i due derby anziché lo scudetto. Io preferisco lo scudetto".
Il tuo più grande rivale da calciatore?
"Per me non ci sono avversari o rivali. Ci conosciamo tutti, chi più e chi meno, in campo ti trasformavi. In quel momento odiavi pure Nesta ma a fine partita ritornavi come ai vecchi tempi. Rivale non è una parola che mi piace. C'erano signor giocatori in tutte le squadre".
Il difensore che ti ha messo più in difficoltà?
"Non c'è uno in particolare ma c'erano certi cani, uno ti alzava e uno ti rinviava".
Mostrano la foto del rigore all'Australia: "Non dico che ci abbia consacrato, ma dopo quel rigore ci siamo detti che saremmo arrivati alla fine. Era una partita particolare, eravamo in 10 e se fossimo andati ai supplementari non so come sarebbe andata. Quel pallone era un macigno. Dopo aver segnato abbiamo capito che avremmo potuto vincere il Mondiale. Mi ricordo di aver fatto 70 metri infiniti fino al dischetto, mentre camminavo pensavo al cucchiaio, parlavo tra me e me, cercavo risposte e non le trovavo. Al momento del fischio, e il portiere era grosso, ho detto che avrei tirato forte e in alto".
Il Mondiale?
"È stato un Mondiale ad alto rischio per me dopo l'infortunio. Con la forza, la determinazione e la voglia, con lo stimolo del mister e dei miei compagni, ho spinto per poterci essere".
Se avessi tirato il rigore in finale con la Francia, come l'avresti tirato?
"Uguale a quello con l'Australia. Da una parte ero contento di non tirarlo, ogni tanto ti tieni qualche responsabilità ma se fossi stato in campo lo avrei tirato. In semifinale eravamo arrivati ai supplementari, era stata tosta, in finale la Francia era molto forte. Era una bella lotta, anche noi eravamo una grande squadra, era una finale giusta".
Senti ancora Lippi?
"Sì, lo sentiamo e ogni tanto organizziamo qualche cena e ci ritroviamo. Sono cose che non potrai mai dimenticare. Abbiamo una chat di squadra. Scrivono di più quelli che non hanno niente da fare ma ormai fanno tutti gli allenatori, è divertente. Ci siamo tutti tranne il mister".
Mostrano la foto del pallonetto a Hart in City-Roma: "Ero giovane. Ah no? Quando segno non sembravo io, ho fatto uno scatto e invece avevo 38 anni. È stato un gol bello e difficile, bella anche l'azione. È stata un'azione inusuale, io andavo in profondità. Stavo bene fisicamente. Abbiamo allungato la serie positiva di vittorie. Al City c'erano grandi giocatori, anche la Roma era una bella squadra".
Quando diventi punta i tuoi numeri schizzano, hai mai pensato se avessi fatto il cambio prima?
"Con i ma e con i se siamo tutti più bravi. Inizialmente mi piaceva fare più assist che gol, andando avanti ho capito che erano più importanti i gol. Ma essendo trequartista, il mio ruolo era mettere in condizione gli attaccanti di fare gol. Poi c'è stata una casualità, voluta o meno, e il mister Spalletti mi ha messo falso nove a Genova perché non avevamo attaccanti. Da lì non ha cambiato più modulo".
Hai attraversato tre epoche calcistiche, in cosa eri diverso dagli altri?
"In 25 anni di carriera non è semplice mantenersi o continuare su questi livelli, andando avanti prendevo più forza, più esperienza e più fiducia e credevo tanto in me stesso. Credendo in te stesso riesci a diventare qualcosa di diverso da altri. Essendo capitano hai una responsabilità diversa, la gente si aspettava tanto quindi dovevo dare il 101%. Andando avanti, mi divertivo ancora di più".
Scegli due attaccanti forti con cui hai giocato?
"Cassano, che non era prima punta, ma ci sono stati anni in cui facevamo come volevamo. L'altro nome è Salah: era un giocatore perfetto per come giocavo io. Non ci siamo gustati più di tanto, io ero alla fine della carriera e lui stava esplodendo anno dopo anno. Se ci fossimo incontrati a metà strada avremmo fatto follie. Avrebbe segnato solo lui perché io non lo riprendevo (ridr, ndr)".
Mostrano la foto di un murales a Roma: "Non l'ho mai visto a Roma, non giro tanto a Roma. Ti riconoscono sempre, anche in Lapponia mi hanno riconosciuto".
La popolarità?
"Da una parte sono contentissimo perché l'affetto della gente ti gratifica, ma nella vita privata non hai possibilità di fare nulla".
La cosa più assurda che ti è successa a Roma?
"Tante cose. La cosa più eclatante è la gente che si ferma e mi bacia i piedi, una cosa da pazzi. Non pensi che qualcuno faccia una cosa del genere. Anche un episodio in carcere: dovevamo andare a trovare i detenuti, c'era un ragazzo che una settimana prima doveva uscire ma sapendo che saremmo andati lì ha chiesto di restare una settimana in più per aspettarmi".
Hai mai pensato che fosse troppo e che dovessi andare via?
"Alcune volte mi viene da pensarlo ma non posso mai lasciare questa città, mi identifico. Ci sono cresciuto e morirò qui, è grazie a loro che mi fanno sentire così importante".
Mostrano uno scatto della partita d'addio all'Olimpico: "Non ho mai visto piangere Francesco così tanto prima, durante e dopo. Certe volte dovevo fingere. È stato un giorno bellissimo da una parte - un giorno che ogni giocatore vuole vivere - ma era un punto di arrivo, la fine di tutto. Non pensavo potesse succedere, speravo non arrivasse mai ma nel calcio c'è un inizio e una fine. È una giornata difficile da descrivere. Fare il giro di campo e vedere tutti piangere, ero contento e amareggiato perché già dal giorno dopo non sarebbe più successo. Il rettangolo verde è stato tutto per me, quello che sentivo lo trasmettevo su quel prato verde per far contenta questa gente, per far emozionare la gente. Mi esprimevo in campo: la cosa più semplice e più significativa per me. Le chiacchiere le porta via il vento".
Hai avuto paura poi?
"Sì, ogni tanto mi torna. Noi calciatori siamo abituati a essere abitudinari, è tutto programmato. Non sapevo cosa volessi fare dopo, non era stata voluto. È stato all'improvviso ed è stata una bastonata pesantissima, ma era giusto che arrivasse. L'avrei vissuta diversamente e ammorbidita. Non me lo aspettavo, soprattutto il modo: inizialmente mi avevano detto una cosa e poi è stata viceversa, non voglio più parlarne. Non voglio vivere di rimpianti, quella giornata è stata indimenticabile e non ho fatta un'altra partita d'addio, non aveva senso".
Sembrava che potessi tornare a giocare. È vero?
"C'è stato un incontro con alcune persone nell'ambito calcistico, con un giocatore con cui ho giocato che scherzosamente mi ha chiesto se potessi dare una mano. E io gli ho detto che gli voglio bene ma non sono un ragazzino, mi ha detto che mi fossi allenato 2-3 mesi avrei potuto fare quella pazzia. Mi ha fatto scattare qualcosa e ho pensato di riniziare ad allenarmi, mi sentivo bene e non avevo problemi fisici. Il fisico reagiva e l'ho chiamato: 'Non sto male, ma mi serve un altro mese buono'. Mi ha detto che mi avrebbe aspettato. Poi niente, mi sono fermato e ho pensato che non sono andato in altre squadre quando potevo e poi fare 6 mesi in un'altra squadra non mi sembrava corretto. Rimanere con un'unica maglia, penso che nessun altro riuscirebbe a farlo. Io e Maldini, non ce ne sono tanti. Ho parlato con le 2-3 persone vicino a me, per rispetto di quello che ho fatto non sono andato avanti. È mancato tanto così, sarebbe stato diverso e impensabile, quello mi spingeva. Anche perché non avrei fatto brutte figure per quello che c'è in giro, potevo stare in un contesto di squadra e potevo aiutare i giovani. Non ho mai detto la squadra per rispetto dell'allenatore e del club. Ora basta altrimenti divento patetico e pesante. Certo che se dovesse chiamare la Roma ci penserei (ride, ndr)".