TRS - Ai microfoni dell'emittente radiofonica è intervenuto Mircea Lucescu, ex allenatore tra le altre della Dinamo Kiev, avversaria della Roma nella sfida di Europa League in programma alle 18.45 all'Olimpico. Le sue dichiarazioni:
Come sta in questo momento e come procede l'esperienza con la
"sua" Romania?
“Sono tornato in panchina, tutto va bene. Abbiamo vinto con Kosovo,
Cipro e Lituania due volte, siamo primi in classifica: per questo dico
che tutto va bene. Ho lasciato la Dinamo Kiev nel novembre scorso, erano
arrivati 50 droni quel giorno e non era più possibile continuare, ho
capito che sarei dovuto andare a casa. Mi dispiace per la squadra, per i
miei colleghi e per i giocatori: non è facile fare calcio in quelle
condizioni”.
Ha più voglia oggi di allenare, a quasi 80 anni, o quando ha
iniziato?
“Non si può comparare, oggi lo faccio con tranquillità ed esperienza
mentre prima ero un vulcano. Avevo 37 anni quando abbiamo vinto contro
l'Italia Campione del Mondo, eliminandola da Francia 1984. Ora sono più
tranquillo, ho molta più esperienza e ho vissuto tanti momenti
importanti. Ho allenato più di 50 anni, ho iniziato quando ero giocatore
e contro l'Italia, pur continuando a giocare, allenavo già”.
Quanto è stato difficile allenare in Ucraina durante la guerra?
“E' molto difficile, quando parlavo con i giocatori si rendevano conto
che era importante dare un sentimento di gioia alla gente. Il calcio è
gioia, con tutta quella sofferenza e quella misura della guerra il
calcio aiutava tanto. Prima si giocava senza spettatori e bisognava fare
un minuto di silenzio per chi lottava sul fronte, era difficile perché
ti passava davanti agli occhi. Dovevamo giocare all'estero tutte le
partite europee, anche in campionato era difficile perché l'Ucraina è
grande e non si poteva prendere l'aereo o fare 8 ore di autobus:
dovevamo continuare per dimostrare a tutti che, nonostante le
difficoltà, la vita continuava”.
Come è cambiato il rapporto tra allenatore e società rispetto al
suo passato?
“Non ci sono più quei tipi di Presidenti, oggi sono i fondi a gestire
tutto ed è difficile trovare l'anima della squadra. E' successo a me con
l'Ascoli, col Pisa, ma lo vedevo anche alla Juventus con Agnelli,
all'Inter con Moratti, alla Roma, al Bari e al Lecce. I Presidenti erano
simboli, nonostante cambiassero i calciatori loro rimanevano. ”.
Come è il calcio italiano di oggi rispetto a 25 anni fa?
“Ci sono stati tanti cambiamenti, sul piano economico-sociale e
politico: tutto questo influenza il calcio. Non c'è più possibilità per
le squadre di mantenere un gruppo di giocatori 7-8 anni, come invece
prima succedeva. Prima c'era una squadra fatta non solo da giocatori e
allenatori ma anche dai tifosi, oggi non c'è più questa cosa perché ogni
2 anni i giocatori cambiano. E' una situazione difficile, chi c'è sempre
sono i tifosi: l'anima di tutte le squadre italiane”.
Quanto è complicato per un allenatore come Juric, che non ha il
carisma di De Rossi o il curriculum di Mourinho, imporsi in una squadra
come la Roma?
“Senza il supporto dei tifosi è difficilissimo, non si può ottenere
risultato da un giorno all'altro. Un allenatore ha bisogno minimo di 6-8
mesi per far vedere il cambiamento. Per questo non è facile. Ho avuto
all'Inter una situazione del genere, sono arrivato a dicembre e abbiamo
vinto cinque partite in casa ma era difficile perché già si parlava di
un altro allenatore e i calciatori pensavano a fare i contratti nuovi.
Sentivano che ero giovane e nuovo, ma se un allenatore non ha l'appoggio
della società è difficile perché poi entra in contatto in modo negativo
con i calciatori. L'allenatore deve anche cambiare, non è facile vivere
in queste situazioni”.
Come può un allenatore appena arrivato imporsi nello
spogliatoio?
“Forse Juric ha sbagliato, ha cercato di svegliare i giocatori con le
dichiarazioni di ieri. Deve fare risultati con questi giocatori che ha,
non con gli altri. L'allenatore deve fare i risultati con i calciatori
che ha a disposizione e la società gli deve stare molto vicino. Se
vengono fuori discorsi di questo tipo diventa difficile anche per la
società. E' possibile anche che i giocatori lo rigettino, non conosco
bene la situazione a Roma e non ho mai vissuto questo ambiente. Ero
sempre attento al calcio italiano, ma ultimamente meno quindi non
conosco nello specifico queste dinamiche”.
Che Man è pronto a fare il grande salto?
“E' forte, eccezionale. Ha senso del gioco, può crescere sul
temperamento ma è incredibile. Non credo rimarrà a Parma tanto tempo,
non lo conoscevo molto bene ma l'ho trovato in Nazionale e l'ho visto
due volte in Italia: in tutte le partite che ho visto ha fatto gol.
Sente bene gli spazi di gioco, fa dribbling e non rischia in contrasti
impossibili”.
Quali sono tre leader da spogliatoio tra i grandi giocatori che
lei ha allenato?
“E' difficile rispondere a questa domanda. A Brescia avevo Domini, un
grande giocatore che è stato anche a Roma. Ero l'allenatore del Pisa,
abbiamo giocato contro la Roma vincendo 3-2 ma un giocatore incredibile
è stato Piovanelli. Con me Domini è stato bravissimo. Poi al Pisa, anche
se aveva solo 18-19 anni, c'era Simeone: non accettava di prendere,
giocava solo con l'interno piede ma era bravissimo. Anche all'Inter è
stato così, sono rimasto in buoni rapporti con lui visto che ha
debuttato in Italia con me. Ne ho avuti tanti, ma l'anima della squadra
sono quelli che non sopportano perdere. Leggevo che Messi quando perdeva
una partita piangeva: questo dà possibilità agli altri di soffrire. Voi
a Roma avete comprato Dovbyk, perché non anche Tsygankov? E' un
grandissimo giocatore. Oggi vedrete in campo Shaparenko”.
Che cosa ci dobbiamo aspettare dalla Dinamo Kiev?
“Sarà una partita difficile, in campionato hanno vinto 5-1 e poi sono
andati in treno fino alla frontiera. Da lì hanno preso un pullman, sono
arrivati a Lublin dove si sono allenati e poi sono arrivati a Roma. Loro
partono con lo svantaggio del pronostico e domenica dovranno giocare il
derby contro lo Shakhtar Donetsk: hanno sei punti di vantaggio, ma è
possibile che ci sia qualche cambiamento visto che si rendono conto che
per loro è più importante la partita di campionato ed è difficile
continuare a far bene in Europa. Non si sa mai, loro giocando per la
gente che è rimasta lì a combattere e questa cosa può aiutare
nell'entrare in campo e nel dare il massimo”.
Quanto è importante l'educazione per i giovani calciatori?
“Dipende dall'allenatore, dalla società. I giocatori, specialmente i
giovani, saranno sempre disponibili. Quando arrivano a 32-33 anni
pensano di sapere tutto del calcio e non hanno più bisogno di consigli,
ma se non ascoltano l'allenatore e non hanno leadership lo mettono in
difficoltà. Con i giovani, indipendentemente dal contesto, è diverso
perché assorbono tutto. La cosa più importante per me è il rapporto con
i giocatori: a loro parlo in primis dell'educazione e della formazione,
poi dell'attitudine perché il giocatore deve essere sempre positivo, e
anche della disciplina. Il risultato non può essere positivo se non
tieni conto di queste cose, se non cerchi di dare alla squadra
un'educazione professionale di alto livello. Loro lo devono capire, lo
devono sentire: è molto importante avere un allenatore che trasmetta
tutti questi valori”.
Quanto è grande il salto da giocatore ad allenatore?
“E' un grande errore, passare da giocatore ad allenatore è un grande
salto. Allenare è un'altra cosa rispetto a giocare, giocare aiuta ma è
un'altra cosa. Ricordo Gullit e Van Basten, non è andata bene.
L'allenatore che ha giocato non può pretendere che i giocatori siano
come loro, se fai sempre comparazioni commetti un grave errore. Ricordo
Bearzot che diceva che la cosa più importante per l'allenatore è
l'umiltà: è verissimo, aveva ragione. Il talento è importante e tutti
devono lavorare per il talento, come il Barcellona con Messi, ma tutti
per prima cosa devono dare tutto sul piano educativo”.