Antonio Cabrini è arrivato dopo, Roberto Carlos e 'pendolino' Cafù addirittura 20 anni più tardi. Ma a Roma negli anni '70 avevano già visto qualcuno correre a perdifiato lungo la fascia, stravolgendo il ruolo del terzino e trasformandolo in un attaccante aggiunto: Francesco Rocca, 60 anni il 2 agosto, in quel ruolo è stato uno dei più forti dell'epoca, un atleta prima ancora che un semplice giocatore di pallone.
Soprattutto un calciatore sfortunato. «La mia vita è cominciata in discesa, poi è diventata tutta una salita. Ho corso tanto ma è stata una bella cavalcata», sintetizza alla vigilia del compleanno. Per tutti sarà sempre 'Kawasakì, appellativo coniato dagli Ultrà della Sud per quel suo modo di volare su e giù per il campo che tanto ricordava la moto simbolo di quegli anni. Figlio di un idraulico e di una casalinga, Rocca inizia a giocare nella parrocchia di S.Vito Romano, poi passa al Bettini Quadraro dove lo 'pizzicaronò gli osservatori della Roma del 'Magò Herrera che a soli 18 anni lo fece debuttare nel torneo anglo-italiano Quel suo modo di giocare, di correre, di macinare chilometri sulla fascia - attaccava e difendeva con eguale disinvoltura - inebriò un pò tutti, allenatore, compagni e tifosi ma anche Fulvio Bernardini, chiamato a ricostruire la Nazionale dalle macerie del 1974. Insomma, un fuoriclasse, uno dei migliori giocatori di sempre della storia della Roma che non a caso lo ha inserito nella sua Hall of Fame. Uno dei più amati, sicuramente uno dei più sfortunati.
«Ma continuo a pensare che la vita è stata prodiga con me - dice oggi - È vero, ho convissuto col dolore ma tanta gente è stata più sfortunata di me. La vita mi ha riservato tante belle cose e tanti ostacoli, ho dovuto saltarli tutti. Nel dramma sportivo sono riuscito però a trasformare il dolore in un esempio per i giovani. Non era esasperazione la mia, solo non volevo che agli altri capitasse quello che era accaduto a me». Pilastro della difesa della Roma con la quale esordì il 25 marzo 1973 a S.Siro (e «quello - confessa - resta il momento più bello della mia carriera da calciatore»), titolare in Nazionale, 'Kawasakì ha davanti a sè una carriera luminosa.
Ma il destino era lì ad aspettarlo, così come tanti ruvidi difensori avversari che cercavano di fermarlo in tutti i modi per non farlo arrivare fino in fondo. Come in quel Roma-Cesena del 10 ottobre 1976 che Rocca termina con il ginocchio gonfio. Ma c'è la Nazionale e i medici gli danno via libera. Tornato dal match azzurro, dopo pochi minuti di allenamento, i legamenti fanno crac. È l'inizio di un calvario che parla di due stagioni giocate a singhiozzo e di ben 5 operazioni al menisco e al ginocchio.
Nell'ultima stagione colleziona solo 6 presenze, l'ultima il 26 marzo '81 contro la Fiorentina. A fine partita il verdetto più amaro: basta calcio, tant'è che nella partita di addio contro il Porto Alegre il 29 agosto 1981, non giocherà più di 20 minuti. Quel destino crudele non ha scalfito 'Kawasakì che ha reagito con durezza e disciplina; prima di tutto sempre rinnegando la sfortuna e ripetendo - ancora oggi - «di dover sempre, in fondo a tutto, ringraziare la vita». Eppure è stato uno dei talenti più innovativi del calcio italiano, tanto che Nils Liedholm dopo la sconfitta in finale di Coppa Campioni del 1984 disse che se avesse avuto lui in campo molto probabilmente quella 'maledettà partita avrebbe avuto un altro esito. Terminata la carriera da calciatore, tutto l'entusiasmo che non aveva più potuto mettere in campo, Rocca ha provato a riversarlo sui ragazzi: «Cerco di trasferire loro le emozioni che vennero negare a me», ripete oggi orgoglioso dei suoi 30 anni nei quadri tecnici della Federcalcio, «anche se sempre con contratto annuale». E si prende anche qualche piccola soddisfazione come ct delle giovanili (4/0 posto ai Giochi di Seul con l'Olimpica, vicecampione d'Europa Under 19), sperando magari un giorno di «riprendere a far correre gli altri» seduto su qualche grande panchina.
(ansa)