La favola dell'Hoffenheim, il Chievo di Germania

07/03/2009 alle 14:20.

LA REPUBBLICA - "Ho la pelle dura, sono io il volto della commercializzazione del calcio". Grazie al suo cognome onomatopeico (Hopp) e alla faccia della sua età (68 anni), il ricco Dietmar fa un salto nella Bundesliga portando lo scompiglio finanziario, attirando invidie e ammirazione. E facendo anche sorgere il dubbio, fondatissimo, che si può essere "Chievo" anche nella ragionata Germania del calcio. Aspettavano tutti che mollasse, prima o poi, che qualcuno ne mettesse in evidenza limiti e spirito d'improvvisazione, invece il suo Hoffenheim è ancora lì, terzo a due punti dalla vetta (l'Hertha Berlino), in zona Champions League, benché non vinca da un mese.

Aspettavano tutti che mollasse, prima o poi, che qualcuno ne mettesse in evidenza limiti e spirito d'improvvisazione, invece il suo Hoffenheim è ancora lì, terzo a due punti dalla vetta (l'Hertha Berlino), in zona , benché non vinca da un mese. Doveva cadere a dicembre, prima della sosta invernale, invece è diventato campione d'inverno insieme col Bayern di Monaco. Neppure l'infortunio che ha tolto di mezzo per tutta la stagione o quasi il suo capocannoniere Vedad Ibisevic, che aveva una media gol da togliere il sonno persino a Gerd Müller, è stato sufficiente per cancellare entusiasmo e risultati alla stravagante corriere guidata dal tecnico Ralf Rangnick.

Ed è anche giusto così. Perché è il calcio ad essere così: quando il modulo funziona, trainato da una robusta dose di polmoni, Sanogo può rimpiazzare Ibisevic. Esattamente come nel Chievo, quando Delneri lo portò al 5° posto nel campionato d'esordio in serie A, Cossato poteva sostituire Marazzina e Barone finire al posto di Perrotta.

Hopp non è un pivello del pallone. E' entrato nel calcio undici anni fa, quando l'Hoffenheim giocava nella Kreisliga, il punto più basso del calcio organizzato, e lentamente ha costruito una specie di bicicletta col motore a scoppio. Ha tirato fuori 150 mln di euro, colpendo qua e là, secondo indicazioni di mercato in sintonia col progetto, mai esagerate. Fuori dal campo il "territorio" di Hopp è quello dei software (ha fondato nel '72 la Sap, la Systemanalyse und Programmentwicklung, la più grande produttrice europea di software, la quarta del mondo). La squadra, proprio come un software ben calibrato, ha cominciato a produrre risultati e a risalire la china, una categoria dopo l'altra (Verbandsliga, Oberliga, Regionalliga), destando la curiosità dei pochi affezionati che il paese era in grado di mettere a disposizione: "Non faccio programmi neppure adesso", ammette il patron. Ma sa di mentire.

Dall'inizio dell'anno l'Hoffenheim gioca nel nuovo stadio di 30 mila posti: "E noi - prosegue - dobbiamo fare in modo che i numeri non giochino contro di noi, che non ci si prenda per pazzi". La spiegazione è semplice. Hoffenheim è una frazione di Sinsheim che non conta più di 3.500 abitanti. Come si fa a riempire uno stadio che può ospitare dieci frazioni come Hoffenheim? "Dovevamo metterci in regola con la Bundesliga. Ora con 30 mila posti a disposizione il circondario (siamo in pieno Baden-Württemberg, ndr) non avrà difficoltà a riversarsi da noi e tifare Hoffenheim".

Lo stadio, che è andato sostituire quello vecchio che aveva un nome scelto a caso, Dietmar Hopp Stadion, era stato pensato già nel 2006 e inizialmente doveva essere costruito ad Heidelberg. Poi il cambio di rotta e la nascita, molto più casalinga e passionale, del Rhein-Neckar Stadion, lo stadio dei due fiumi, il Reno e il Neckar, un perfetto modello di struttura sportiva mitteleuropea, come il Tivoli-Neu Stadion di Innsbruck: "Siamo consapevoli di aver imboccato la strada giusta, ma a me a questo punto interessa soprattutto la stabilità: restare a lungo in Bundesliga".

Ci vorranno altri soldi. Più di quelli spesi per convincere Timo Hildebrand, il che vinse il titolo con lo Stoccarda, a lasciare Valencia dove era emigrato da quasi fenomeno, e per raccogliere un po' di stranieri abbordabili, bravi ma non troppo pretenziosi come i tre brasiliani di piccolo cabotaggio Wellington, Carlos Eduardo e Gustavo, gli africani Vorsah, Ba e Obasi. Perché adesso con i quattrini bisognerà dare a Rangnick altri nomi con cui eventualmente affrontare una coppa europea e soprattutto, una volta guarito, saranno i soldi e non altro a convincere Ibisevic a restare: "Ci parlo io con Vedad, lui sa che qui può togliersi molte soddisfazioni".

Ibisevic è una storia in perfetto stile Hoffenheim. Prima di questa stagione, in cui è ancora capocannoniere del campionato con 18 gol malgrado sia fuori già da tre mesi, era uno sbandato del calcio. La sua famiglia era scappata dai Balcani durante la guerra all'inizio degli anni Novanta. Vedad ha talento ma non riesce ad imporsi perché non sa come mettersi in vetrina. Passa per la Svizzera e poi decolla per gli Stati Uniti. Come tanti sbandati, quando meno se lo aspetta, vede la luce. Mentre gioca per la squadra della Roosevelt High School di St. Louis lo chiamano in nazionale, l'Under 21 della Bosnia. Lì incontra Halilhodzic, ex gran giocatore nonché tecnico del Paris S. Germain, che se lo porta dietro.

Ibisievic finisce a Digione, in serie B. Approda in Germania attraverso l'Alemannia di Aachen (Aquisgrana), sempre in B. Poi l'incontro con Rangnick. Il primo appuntamento nell'ufficio di Hopp è da ricordare: "Mi sembrava che mi stessero prendendo per i fondelli, sentivo cifre da capogiro e infatti mi girava la testa...". Era tutto vero. Solo che il primo anno Ibisevic stenta e rimane spesso in panchina: "Ma io me lo sentivo - ammete Hopp - che quel matto sarebbe arrivato lontano".

Anche la passione di Hopp viene da lontano. Da ragazzo l'Hoffenheim era il suo club: "Giocavo come un matto, ma era troppo presto. Non erano gli anni giusti per pensare al pallone come a una dimensione professionistica". Così ha aspettato che quei tempi maturassero. Adesso sono maturati.