Moggi e il processo Gea: carte in tavola

06/01/2009 alle 19:22.

LA STAMPA (BECCANTINI) - Nell’ambito del processo Gea, non credo «all’associazione a delinquere finalizzata all’illecita concorrenza con minacce e violenza» che Luciano Moggi avrebbe organizzato per schiavizzare il calcio italiano. O mi sono perso qualche passaggio o gli undici anni chiesti per la famiglia Moggi (sei al padre, cinque al figlio Alessandro) non stanno in piedi. Lo scrivo prima del verdetto di primo grado, atteso a Roma per giovedì 8 gennaio 2009. Lo scrivo perché le munizioni e le raffiche del pm Luca Palamara, presidente ad arringhe alterne dell’Associazione nazionale magistrati, hanno trasformato Moggi in un personaggio che, se davvero esistesse, e se davvero avesse fatto tutto quello che gli è stato attribuito, andrebbe deportato in Siberia. E noi giornalisti con lui, per omesso controllo. Molti si ostinano a parlare di Moggiopoli. Fa comodo. Ripeto: o mi sono distratto o dipingere la Gea come l’ultima Spectre non sta né in cielo né in terra.

La Gea è saltata per aria ed è stata soppiantata da nuovi consorzi, come insegna la legge della giungla. Moggi è tutt’altro che un santo o un martire, ma neppure quel mostro spietato che la pubblica accusa ha tratteggiato. In una guerra per bande, come è da anni il calcio mercato, sono molti i mezzi che giustificano il fine, a maggior ragione se corredati da soffiate ai giornalisti amici. Nessuno meglio di noi, quando viene titillato, sa creare l’atmosfera. Aver costruito una fortissima è un’aggravante e non un’attenuante, soprattutto in relazione al modo in cui l’ex ha gestito i rapporti con i designatori e gli arbitri, fermo restando che San Dulli, con le sue sentenze a capocchia, ha scavato un fosso troppo profondo tra la e le altre, tra Moggi e gli altri. Pesa Arbitropoli, non Geapoli, le cui sanzioni - per le testimonianze rese e le prove emerse - avrebbero dovuto essere esclusivamente sportive.