SPORTWEEK (F. SALVIO) - Un anno dopo – era il 7 gennaio 2014 quando sbarcò a Roma – Radja Nainggolan è un calciatore migliore. Lo certifica la media voto della Gazzetta, che con 6,68 lo premia come il più bravo dei centrocampisti della Serie A e secondo in assoluto al solo juventino Tevez. Chi lo conosce aveva zero dubbi sul fatto che sarebbe andata così. Che il belga di origine indonesiana non avrebbe sofferto il salto dalla provincia alla metropoli, dal piccolo club alla grande squadra, insomma da Cagliari e dal Cagliari a Roma e alla Roma. Per lui questa è stata un’opportunità, non un salto nel vuoto: di quelli ne aveva già fatti parecchi in altri tempi, quando non c’erano reti a proteggerlo alla fine della caduta. Ha sofferto da bambino, Nainggolan, e di alcuni dei peggiori tormenti che un bambino possa sopportare: il rifiuto, l’abbandono, la fame. Niente perciò può ancora fargli paura, men che meno la prospettiva di fare carriera. A patto però di restare se stesso, la sua aspirazione massima. Perché è attraverso l’antico dolore che Radja Nainggolan è diventato ciò che è: né angelo, né demone, ma, semplicemente, autentico. Con la sua cresta, i tweet al veleno, i tatuaggi che lo ricoprono quasi per intero e, dice, «raccontano la mia storia». A noi, quella storia ha deciso di spiegarla in prima persona. Perché sa di aver già pagato abbastanza. Adesso è il momento di riscuotere.
In indonesiano, Radja vuol dire “re”. In quali occasioni si sente tale?
«Mai. È il nome che mi è stato attaccato, che non mi sono scelto e che dovrò portarmi appresso per sempre. Ma per me non significa niente. Anzi, io mi considero una persona umile».
A vederla giocare non si direbbe: tutto sembra, tranne uno che non sia cosciente dei propri mezzi ai limiti della sfrontatezza.
«In campo è un’altra cosa. Uno senza autostima non può giocare a pallone. Mi piace il mio ruolo perché mi consente di fare tutto: difendere, costruire e concludere l’azione. In questo momento mi riesce tutto bene».
In carriera ha avuto un modello?
«Non uno in particolare. Mi piaceva la grinta di Gattuso, mi piacciono la tecnica di Xavi e i tempi d’inserimento di Vidal. Il mio compagno Keita poi è spettacolare, ha vinto tanto e vuole farlo ancora».
E la Roma ha sufficiente autostima per arrivare prima in campionato, oppure l’eliminazione dalla Champions ha inciso in negativo sulla fiducia del gruppo?
«In Champions il girone era difficile e nessuno immaginava che potessimo giocarcela fino alla fine. Abbiamo perso con Bayern e Manchester City, due squadre con un budget finanziario 10 volte superiore al nostro. Ma sono convinto che abbiamo la forza di vincere lo scudetto. Avessimo battuto la Juve a Torino, come era nelle nostre possibilità, la classifica sarebbe diversa. Sulla carta la Juve magari è favorita, ma noi siamo in grado di passarle davanti. La carica dei tifosi può essere l’elemento decisivo a nostro favore. Non so a Torino, ma a Roma abbiamo molta fame».
Dopo la vittoria a dicembre sul Genoa, con un suo gol, è stato detto e scritto che lei è il leader di questa squadra, più di Totti e De Rossi. È consapevole del suo ruolo? E che cosa vuol dire essere leader in un gruppo?
«Avere la mentalità vincente. Solo quella. Quando uno nasce vincente e vuole vincere sempre, e parlo anche per De Rossi perché è uno che ce l’ha dentro, in automatico diventa leader. Io non mi sento tale, però ho delle responsabilità e i compagni si aspettano molto da me».
E lei cosa pensa di poter dare?
«Per mentalità e carattere, sono uno che in campo mette un po’ di grinta in più».
Parla tanto nello spogliatoio?
«Se c’è da dire qualcosa. Se c’è da star zitti, sto zitto».
Lei passa per uno che dice quello che pensa. Ci sono momenti in cui le costa farlo?
«Ci sono delle volte in cui ammetto dentro di me di aver detto una cavolata. Però la vita è realtà, con le sue cose belle e quelle brutte. E se uno non dice quello che pensa, nel bene e nel male, è fuori dalla realtà».
Ma la Roma ancora non le ha ordinato di lasciar perdere Twitter?
«Prima di essere un calciatore sono una persona normale. Se uno mi offende, come è successo, reagisco da persona normale. Che faccio, inizierò a rispondere solo quando non sarò più un calciatore?».
Il calcio l’ha cambiata?
«Dico spesso di no, ma penso di sì. Il calcio mi ha dato il benessere economico, e i soldi cambiano le persone. Io credo di essere generoso e, se uno chiede, do quasi sempre. Però la mia vita è diventata più difficile perché è più difficile darmi dei limiti: quando hai tanto denaro vuoi le cose più belle, quelle più care, che la gente comune non può permettersi».
E riesce a trovarlo, il limite?
«Sì, quando dico a me stesso che anch’io ero uno dei tanti. Quando ripenso da dove arrivo e da dove sono partito. Sono stato un bambino veramente povero. Però ho mangiato tanta merda per arrivare dove sono oggi e merito di togliermi uno sfizio ogni tanto».
Quali sono quelli che si concede più spesso?
«Una bella vacanza, una bella macchina, una bella casa…».
Che auto ha ora?
«Una Ferrari».
A Roma gira in Ferrari?
«A volte sì. Ma una macchina non fa una persona».
E come farà a insegnare a sua figlia Aysha a non perdere contatto con la realtà, che non è solo quella dorata in cui vive oggi?
«Spiegandole che da bambino sono vissuto con niente e che, come oggi ho tanto e posso dare a lei altrettanto, domani potrei tornare ad avere niente e lei dovrebbe accontentarsi di quel niente».
Suo padre Marianus è andato via da casa quando lei aveva 5 anni. Ha ricordi di lui?
«Sì, ricordo il suo aspetto».
L’ha più cercata, da allora?
«Mi ha cercato, ma è facile, dopo che tuo figlio è diventato calciatore… Troppo facile».
Vi siete rivisti?
«Si è presentato due anni fa, quando sono andato per la prima volta in Indonesia. Lì sono stato invitato a uno show televisivo dove mi hanno chiesto di lui e ho detto talmente tanta verità sul suo conto che tutti hanno capito chi era mio padre. Però di una cosa lo ringrazio, di avermi messo un pallone tra i piedi. È stato lui il primo a portarmi a giocare, al parco, ad Anversa, in Belgio, dove sono nato».
Sua madre le ha mai parlato di lui?
«No, perché non mi interessava. Avevo lei che con tanti sacrifici si prendeva cura di me e mia sorella Riana, e mi bastava».
Suo padre le ha chiesto perdono?
«No, per niente. Lui è convinto che in quel momento doveva lasciarci per forza, che sono cose che fanno parte della vita… È molto credente e dice che Dio saprà giudicarlo. A me non interessa. Se Dio lo perdonerà, meglio per lui. Io non posso perdonare. Rispetto chi crede, ma per me Dio non esiste. Mi ha tolto la persona che mi era più cara, mia madre Lizy. È morta quando avevo appena 20 anni, prima che io diventassi un calciatore famoso. Era il suo sogno».
Ha detto: «La rabbia e la voglia che metto in campo sono figlie dell’infanzia che ho passato».
«Quello che ho vissuto mi ha insegnato a non accontentarmi mai. Per questo lavoro duro, ogni giorno sempre di più».
Ha detto pure: «Il mio corpo parla per me». Qual è il tatuaggio cui è più legato?
«Quello sulla schiena: due ali con le date della nascita e della morte di mia madre. Lei era il simbolo della famiglia, la figura che la teneva unita. Quando è mancata, la famiglia si è spaccata».
L’ultimo tatuaggio che ha fatto rappresenta un giaguaro insieme a un veliero. Che significato ha?
«Il veliero è il senso della vita, il giaguaro sono io: un combattente».
Che cosa la rende più orgoglioso di se stesso?
«Il fatto di non mollare mai».
Ha partecipato a #allacciamoli, una campagna di solidarietà contro l’omofobia. Perché?
«Perché, come per il colore della pelle, si fanno differenze tra le persone anche a proposito delle loro inclinazioni sessuali. Ma come io non ho scelto di nascere maschio, così gli altri non hanno scelto la propria identità e possono non trovarsi a proprio agio nel corpo di un uomo o di una donna. Prendi mia sorella Riana: ha avuto una storia con una donna. Pazienza. Finché sono libere e consapevoli, sono scelte che vanno accettate».
Ha avuto compagni omosessuali?
«Che io sappia, no».
Se sua figlia le chiedesse di raccontare la sua storia, come risponderebbe?
«Raccontandole di uno che è partito con niente e ci ha sempre creduto, anche quando un giorno gli dicevano che era troppo piccolo per giocare e l’altro non c’erano soldi per mangiare. Ma quando uno deve arrivare, arriva».
Che cosa le hanno dato Roma società e Roma città?
«Mi piaceva l’idea di arrivare in una società che aveva bisogno di ripartire e costruire. Posso dire di aver fatto la scelta giusta. La città è perfetta, non ci si annoia mai. Le uniche cose da sopportare sono il traffico e la marcatura a uomo dei tifosi».
Lo sa che in dodici mesi ha preso l’accento romanesco?
«A sentire tutti i giorni la stessa parlata… Poi, quando arrivai in Italia, a Piacenza trovai sei compagni di squadra romani».
A proposito di romani: si è mai permesso uno sfottò verso Totti?
«Ho molto rispetto perché quando tocchi lui, tocchi quello sbagliato, per ciò che rappresenta per squadra e città».
Quanto ci mette, a raddrizzare ogni mattina la sua altissima cresta?
«Cinque minuti. A volte la lascio giù addirittura».