DE ROSSI: "Spalletti? La Roma dovrebbe fare di tutto per trattenerlo. Il contratto non è un pensiero fisso ma voglio continuare a giocare"

27/04/2017 alle 00:21.
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RIVISTA 11 - Giorni fa è stata pubblicata dalla rivista un'intervista esclusiva rilasciata dal centrocampista della Roma Daniele De Rossi. Dopo gli stralci usciti recentemente, queste alcune delle dichiarazioni del romanista:

 

"Sto bene. Sono felice. E' un annetto che ho ricominciato a sentirmi un calciatore fino in fondo. Un calciatore di livello alto. Vero"

Che cosa è successo?
Prima ero sceso di prestazioni, era diminuita la convinzione che il mio fisico potesse reggere nel calcio italiano ed europeo a certi livelli. Poi, un po' la mia caparbietà, molto l'Europeo e il pre-Europeo con e tutto il lavoro che ha fatto
e questa grande squadra che ha creato, hanno fatto sì che tutto fosse più facile. Poi resta che non sono un giocatore alla
...

In che senso?
Non sono uno di quei calciatori che se sono in forma portano risultati da soli, ma che se non lo sono possono comunque fare la differenza. Io devo stare bene fisicamente per fare il mio calcio, ma ho anche bisogno di una squadra che mi sostenga. Sono un ingranaggio. Ed è da un po' che s'è incastrato tutto: arriva , ti motiva in certi modi quando le cose non andavano bene, l'Europeo va in una certa maniera, anche se poi finisce male, ma è stato comunque un campanello: a certi livelli ci puoi ancora giocare e anche bene. Poi la Roma ricomincia e la stagione, sia dal punto personale sia dal punto di vista di squadra, va bene, e quindi tutto mi ha fatto orientare verso il fatto di essere ancora un ottimo calciatore

Hai parlato di ultima fase della tua carriera...
Perché arrivi a un certo punto e pensi a quando smetterai. Ci sono quelli che vogliono smettere presto, quelli che vogliono smettere a 40 anni: io penso di voler fare una via di mezzo. Voglio chiudere con grandissima dignità. Se dovessi vedere che non c'è più una condizione accettabile e che non sto più al ritmo dei miei compagni smetto, ma non come autoflagellazione, autopunizione, semplicemente come una presa d'atto delle cose. Ma oggi mi sento forte. Mi sento ancora un calciatore vero

Com'era Daniele bambino?
Felice. Non mi è mai mancato niente, non abbiamo mai navigato nell'oro: mio padre giocava a calcio in serie C, mia madre era la segretaria del presidente dell'Eni. Il primo choc l'ho avuto a sette anni e mezzo quando è arrivata mia sorella e l'altro piccolo choc era spostarsi per seguire mio padre: non mi è mai piaciuto tantissimo, non ho le cicatrici dei miei ripetuti spostamenti, però dovevi andare in altri posti, eri sempre quello che aveva il dialetto diverso. Mi ricordo un primo giorno a scuola, a Rimini. Papà giocava nel San Marino, ma noi vivevamo a Rimini. Andiamo a parlare con la scuola e ci dicono che i bambini in classe devono indossare un grembiulino rosso o blu. Mia madre me ne compra uno rosso e uno blu. Il primo giorno dice: "Oggi come ci vestiamo? Intoniamo il grembiulino a come sei vestito" e mi mette il grembiulino rosso. Sono andato a scuola, avevo i capelli biondi lunghi. Entro e scopro che il grembiulino rosso ce l'avevano le femmine. Ero piccolo, avevo 6 anni, ma me lo ricordo come se fosse adesso, mi hanno preso in giro pure i sassi. Questo è stato lo choc, dover cambiare, farsi accettare. Però oggi sono cose che ricordo con affetto. In realtà quando penso alla mia infanzia penso soprattutto alla felicità. E al fatto che ho iniziato presto a giocare a pallone

Quando è arrivato il pensiero di poter fare il calciatore da grande?
Da ragazzino ero ancora un po' confuso, mi piacevano tanto la pallavolo e il basket. Ero sicuro che avrei fatto lo sportivo, ma dovevo orientarmi. Farò il calciatore come lavoro, potrò permettermi di campare col calcio, l'ho pensato anni e anni dopo

Nelle giovanili della Roma o già da prima?
Non ero un ragazzino che credeva che davvero potesse succedere tutto questo a me. Ci sperato, ho lavorato. Ho fatto sempre quello che mi piaceva, mi sono sempre divertito. Mi viene da dire anche sacrificato, ma il sacrificio cos'è? Uscire da scuola, al volo mangiare un panino con la bresaola e andare agli allenamenti e poi tornare a casa a fare i compiti e distrutto addormentarsi? No, dai. E non lo facevo perché avevo la prospettiva o la presunzione di diventare voler diventare un calciatore. Lo facevo perché mi piaceva proprio. I primi anni ho anche giocato poco nella Roma, non ero uno dei titolari, non ero una delle stelle individuabili come il futuro campione, il futuro capitano della Roma. Non ero per niente così. Ero disposto anche a cambiare, andare via dalla Roma: se gioco poco e non mi diverto che ci sto a fare qui? Non ero nato, cresciuto per questo. Ho letto Open, il libro di Agassi. Il padre gli ha fatto capire subito che cosa doveva fare: avrebbe dovuto diventare Andre Agassi il tennista, Andre Agassi il campione. E lo è diventato

Se dico Arezzo-Roma, Allievi nazionali, dove va la mente?
Ricordo che mi scaldavo con quello che ora è uno dei miei migliori amici, Emanuele Mancini. Perdevamo 1-0, chiamano, fischiano: "Entra". Emanuele pensava che dicessero a lui. Invece dicevano a me. Entro: faccio uno o due assist, cambio la partita, vinciamo 2-1. Ma la cosa che più ricordo è che in quella partita viene espulso il nostro capitano in maniera ingiusta. Difendiamo il 2-1 fin quasi all'ultimo minuto, quando un difensore centrale sbaglia un passaggio, io rincorro l'avversario lanciato a rete, lo strattono, lo stendo, l'arbitro fischia fallo ma non mi butta fuori perché palesemente si è sbagliato prima. Ecco: io entro, cambio la partita, non vengo squalificato mentre il mio compagno sì e io dalla partita dopo prendo il suo posto a centrocampo. Da allora quell'allenatore non mi ha fatto più uscire. Era Mauro Bencivenga. Gli devo molto, gli devo l'aver capito prima di tutti quale fosse il mio ruolo. Anche prima di me

Che progetti sono?

Il più semplice è che il primo anno mi piacerebbe fare tanti viaggi, girare il mondo, girarlo con i miei figli. Faccio esempi molto banali, ma viaggiare è la cosa che mi riempie di più...

E' questo l'unico rammarico di essere rimasto a Roma? Il non aver visto altri posti?
Sì. Non ho vissuto l'atmosfera di un altro Paese sia dentro gli stadi - penso agli stadi inglesi o a quelli spagnoli - sia fuori dagli stadi. Mi sarebbe piaciuto vedere come si vive da un'altra parte. Ho fatto sempre scelte consapevoli, anche se qualcuno le può considerare incoscienti. Invece ero conscio del fatto che erano scelte professionalmente "sbagliate"

In queste scelte hanno pesato altri valori?
Neanche troppo. Questa scelta viene letta e vista come una cosa di grande altruismo, di amore per la maglia, di amore per i tifosi. Ma è una parte della verità. L'altra è che la mia scelta è stata molto egoista, perché io avevo proprio bisogno di giocare con la Roma. Ho il piacere fisico ed emotivo di giocare con questa maglia. Gli anni in cui sono stato lì lì per andare via, quando magari a Natale sapevo che a gennaio avrei potuto lasciare Roma, sono stati molto particolari. Di solito all'ultima partita in casa a Natale, i giocatori pensano che al fischio finale comincia un periodo di vacanza. Invece io in quei momento entravo in campo e avevo gli occhi lucidi di lacrime. Guardarsi intorno e pensare che era l'ultima partita all'Olimpico... Mi è successo e ho capito che senza questa cosa non posso stare. Vivere senza Roma sarebbe stata una cosa che mi avrebbe fatto più male del non aver vissuto un -, o di non aver calcato gli stadi inglesi più belli. Almeno io la penso così, però la controprova non la potrai mai avere. Vivo un continuo saliscendi tra la voglia di vedere cose nuove e il bisogno di stare qui. Ma a 33 anni sono arrivato con la serenità sia del non aver vinto tanto sia di non aver girato tanto

Il paradosso è essere campione del mondo e non essere riuscito a vincere con la Roma
E' paradossale per i tempi. Perché ho vinto a 22 anni. Se vinci a 27 è un'altra cosa, a 22 invece significa iniziare con il botto e avere un certo tipo di aspettative. E' stato velocissimo: prima l'Europeo con l'Under 21, poi la medaglia di bronzo alle Olimpiadi, poi a 22 anni boom: campione del mondo. Quella è stata forse la fregatura: non aver continuato a vincere. Forse se lo aspettavano tutti. In quei momenti avevo il telefono che scoppiava. Ogni giorno c'era una squadra nuova, ogni giorno c'era qualcuno. Mi dicevano: "Questo allenatore ti sta chiamando e ti vuole parlare, c'è questo presidente che ti fa il contratto in bianco e puoi mettere la cifra e andare quando ti pare". Io la vivevo come una cosa bellissima, però poi alla fine c'era questo sentimento forte che mi rendeva anche abbastanza conscio del fatto che forse avrei vissuto male il distacco

Com'è il rapporto con ?

Io mi sono permesso in questi 16 anni un lusso che a Roma si sono permessi in pochi: viverlo non solo come un idolo. Stare tutti i giorni con lui ti porta a vivere come una cosa normale l'essere accanto a un calciatore che non è normale- Perché quello che ha fatto non è normale, perché è un fenomeno e lo è stato per 25 anni. Rimane l'infervoramento che ho sempre avuto per il calciatore, ma l'ho sempre trattato come un mio compagno qualunque, come trattavo Tonetto, Cassetti, Vucinic per dire quelli a cui mi sono affezionato particolarmente. Come trattavo Pirlo in nazionale. Non perché il livello del calciatore fosse lo stesso, ma perché quando diventa un amico, il fatto che sia il più forte calciatore della storia della Roma, fra i cinque calciatori più forti della storia del calcio italiano - e secondo me, per certi versi, il più forte di tutti - non tocca la mia percezione di lui. Quindi, quando dovevo proteggerlo da un avversario, lo proteggevo, quando ci dovevo discutere ci ho discusso, quando qualcosa non mi stava bene gliel'ho fatto notare, quando dovevo mostrargli affetto glielo mostravo, e quando dovevo dire che era un coglione gliel'ho detto. Un lusso che a Roma non si permette nessuno. Perché qui, se dici che ha sbagliato ad allacciarsi le scarpe, è lesa maestà

Ma quanto è difficile, se è difficile, essere l'erede di per quello che è lui per Roma e per il fatto che gioca ancora?
E' facilissimo. Smette, non smette, la fascia da capitano, sono tutti discorsi che a me non interessano. Io credo che si possa essere capitano anche senza indossare la fascia. E, soprattutto, puoi essere un grande capitano anche da vice. Ma, al di là di questo, è stato facilissimo perché non c'è mai stato dualismo. Forse si sarebbe potuto creare se avessimo avuto lo stesso ruolo. Si possono fare paragoni al massimo sul resto, sul modo di stare in campo, sull'atteggiamento, sul carattere. Ma per quello che calcisticamente gli viene riconosciuto in tutto il mondo, Francesco è irraggiungibile. Dal punto di vista del cuore, della gente, lui è unico. E' amato da tutti perché ha fatto 300 gol. Io non sono amato da tutti perché non sono capace di fare 300 gol. Poi il mio carattere mi porta a dire ogni tanto qualcosa che non pisce, a dire quello che penso e che magari è fuori posto (...)

 


E' stato l'allenatore che mi ha condizionato di più- Quello che ho avuto per più tempo. Mi ha preso che ero giovanissimo. Oggi mi rendo conto che quando lo sento parlare di un giocatore, di una situazione, di un movimento, io ho pensato la stessa cosa un'ora prima. Ho cominciato a vedere il calcio con gli occhi di questo allenatore. Ed è un bel vedere- Al di là di che cosa farò io, al di là che a volte ha un carattere difficile, la Roma dovrebbe fare di tutto per trattenerlo perché sarà più forte (...)

Mai pensato a un futuro da allenatore?
Potrei farlo. Vedo tanti giocatori dire: io l'allenatore mai, quando smetto sto in vacanza una vita. Poi, dopo sei mesi, farebbero qualunque cosa per allenare anche in serie C. Io, invece, non lo escludo. Sono fortunato. Ho avuto due tra i dieci allenatori migliori del mondo: e . Il terzo è Luis Enrique. Con un altro, Guardiola, ho giocato, e se dovessi prendere una panchina chiederei di andare a guardarlo per imparare. Sì, l'allenatore potrebbe essere una cosa che mi piacerebbe fare. Non subito, ma con i tempi giusti mi potrebbe interessare

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