Caos Calmo Cellino, l’uomo sul terrazzo che cancella le partite

25/09/2012 alle 11:32.

LA REPUBBLICA (G. ROMAGNOLI) - Se Berlusconi avesse il mare sarebbe un piccolo Cellino. Dev’essere il riflesso del sole sull’acqua davanti a Miami, dove il presidente del Cagliari svacanza. Dev’essere una gibigiana che acceca e toglie per un attimo la connessione con la realtà. Poi, ci sono attimi che durano una vita. E non ne esci più

La politica è arte del niente, praticata da saltimbanchi che incitano alla rivolta una piazza poi dicono: «Ho dovuto trattenerli». È evocazione di principi che non vengono praticati, iscrizione all’albo dei nemici di chiunque dica: «E tuttavia». Un gran rumore di fondo, un turbinar di formazioni rifatte e maglie scambiate senza che molto accada. Il calcio è l’opposto. Dovrebbe esserlo. Una forma di residua certezza. Si gioca, chi segna più gol vince, si va a casa. Poi ci si mette la genìa dei Cellino e accade che non si giochi, si vinca o perda senza segnare e si resti a casa. Lui no, lui è in Florida per motivi di salute. O meglio, parole sue: «È nella melma, non soltanto per le medicine che sta prendendo». Si affacciano alla mente le paludi delle Everglades, alligatori che avanzano silenti fra le canne, una canoa che scivola incontro al suo destino, trasportando un uomo che getta a mare pillole e flaconi al grido: «Non voglio compassione!». Per una volta accontentiamolo, Caos Calmo Cellino. E diciamoglielo: è vero, non è lui «la vergogna del calcio», è semplicemente la sua negazione. Come altro definire l’uomo che cancellò una partita? È la versione arricchita e peggiorata dei nostri incubi bambini: il pallone finiva sul terrazzo di quello a cui dava fastidio la nostra allegria, la sua porta finestra si schiudeva, una mano appariva, la palla spariva, sul resto del pomeriggio calava il silenzio.

Il cancellatore di partite rientrava in casa, rideva da solo, soddisfatto, poi prendeva carta e penna e scriveva una lettera al quotidiano locale contro la decadenza dei costumi, l’amoralità dei giovani e, indovina, la perdita dei principii. Diceva più o meno così: «La società (Cagliari calcio) comprende i suoi principii pur non condividendoli, perché chi spera di avvantaggiarsi delle disgrazie altrui non può essere contraddistinto come tale». Punto. Due punti. E virgola. Poi a capo, crepi l’avarizia, partiam di congiuntivo: «Se così fosse, a quel tipo di uomo di principii, il suo più appropriato stemma sarebbe quello dell’avvoltoio». Se uno dei tre Gialappa’s è capace di sottotitolare alzi la mano. Cellino parla e ragiona in un modo tutto suo. Anni fa annunciò che voleva comprarsi il West Ham, offrendo 75 milioni di euro. Nessuno ha mai capito perché non li investisse in un Cagliari da scudetto, avendoli. Poi fece sapere che stava preparando un documento storico, capace di dare al calcio il colpo di grazia o rigenerarlo.

E noi, che all’appuntamento con la storia andiamo con il vestito buono, siamo ancora qui con il nodo windsor alla cravatta e la pochette in tinta, ma nessuno è venuto a prenderci per accompagnarci alla svolta. Con tutta la nostra ingenuità, verso il tramonto ci è venuto il sospetto che ci stessero facendo fessi. La stessa sensazione l’abbiamo venuta leggendo l’intervista rilasciata ieri da Caos Calmo all’Unione Sarda, dove sostiene: «Mi diano anche un tre a zero a tavolino, non m’importa: meglio andare in prigione da innocente che da colpevole». C’è una differenza, che pochi presidenti (di calcio e non) sembrano conoscere, tra l’innocenza e l’autoassoluzione. E, direbbe Boskov, colpevole è chi tribunale condanna. Nel caso di Cellino, due volte: per reati patrimoniali. Più questo tre a zero a tavolino. Lui l’aveva detto: «Non spero di farla franca». E per una volta, mi consenta, tutti d’accordo: io speriamo che non se la cavi.